Introduzione: la controvérsia dell’ὅμοιος nella seconda metà del IV secolo
La discussione che ingaggiò i fratelli Cappadoci con Eunomio di Cizico offre degli aspetti di particolare interesse nell’ambito dello studio della trasformazione della concezione dell’ontologia divina che avvenne lungo IV secolo1.
Il tenore dei dibattiti teologici acquisisce il rilievo adeguato alla luce degli sviluppi della definizione dell’uguaglianza nella divinità del Padre e del Figlio, prima e dopo Nicea, specialmente nel dibattito con le diverse versioni subordinazioniste2. La si potrebbe sintetizzare come la controversia dell’ὅμοιος.
Seguendo il filo rosso dei nomi divini rivelati, senza pretesa di esaustività rispetto all’analisi dei testi disponibili3, è possibile ricordare che già nel Contra noetum ci è pervenuto un riferimento al fatto che il Figlio è manifesto come tale per mezzo di Colui che è creduto (πιστέυεται) Padre4, ma risale a Clemente d’Alessandria la prima argomentazione incentrata sulla correlazione dei nomi Padre e Figlio, per indicare l’eternità del Figlio con il Padre5. Dopo di lui l’argomento dei correlativi fu utilizzato da Origene: egli ne fece la confutazione delle interpretazioni monarchiane che trasmettevano una concezione secondo la quale Padre e Figlio sarebbero stati soltanto due punti di vista differenti sull’unico Dio. Dopo Origene l’argomento viene ripreso con l’inserimento della categoria della relazione (τὰ πρός τι) da Alessandro di Alessandria, spostandolo sulla correlazione specifica definita dalla generazione (ἀγέννητος-γεννητός)6. Dopo Nicea lo seguirà Atanasio, come pure però gli anomei, che riducendo alla generazione l’interpretazione della relazione tra il Padre e il Figlio, ne fecero un criterio di subordinazione, che nel diversificare moltiplicava la sostanza del Figlio rispetto a quella del Padre. I Cappadoci, iniziando con Basilio, riprendono la simultaneità della conoscenza dell’uno mediante il nome dell’altro, attraverso il recupero del mistero della relazione e la conseguente nuova centralità della relazione (σχέσις) riguardo ai nomi divini7.
È interessante notare che il dibattito sulla subordinazione del Figlio al Padre nasce come dibattito sulle vie di accesso alla conoscenza di Dio: sebbene il nome di Padre e Figlio e Spirito fu da subito inteso come oggetto della fede -il Padre è innanzitutto creduto (πιστέυεται) mediante la fede in Cristo-, la via della conoscenza di Dio attraverso i nomi rivelati richiese una lunga elaborazione della loro comprensione nell’ordine della referenza dei significati che veicolano. Chi e come è il Dio in cui crede chi crede nel Padre rivelato da Gesu Cristo? La domanda sul nome del Padre guida le risposte sui correlativi quando l’attenzione speculativa dei credenti passa gradualmente dall’economia della salvezza alla dimensione immanente della vita divina. L’attenzione allo sviluppo storico-dogmatico porta ad osservare che la pace del IV secolo permise la diffusione del cristianesimo e portò con sé il bisogno di pensare Dio in dialogo con le diverse concezioni che di Lui avevano i filosofi e i pagani; ciò maturò lungo tutto il secolo conducendo alla definizione dogmatica della divinità del Figlio8. La via dei nomi divini e del loro portato ontologico è quindi ben centrata, anche storiograficamente, a partire dai principali protagonisti di Nicea e da quelli che ne raccolsero l’eredità9. Alessandria, Costantinopoli e la Cappadocia, furono teatro del dibattito per definire il senso della somiglianza del Padre e del Figlio. Le formulazioni che descrivevano il Figlio come õpoioç del Padre, e che divisero le fazioni nicene e antinicene lungo tutto il secolo, hanno avuto nella concezione della categoria di “relazione”, e della somiglianza da essa istituita, una differenziazione principiale10.
Omoousiani e omeousiani
Drobner ha suddiviso i sinodi che hanno costellato il IV secolo in due gruppi: il primo ricomprende quelli che hanno preso decisioni teologiche, il secondo quelli che ne hanno tratto conseguenze disciplinan e pastorali, indirizzando di conseguenza le nomine e le deposizioni dei vescovi11.
Tra i due grandi concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381), i sinodi che presero decisioni dogmatiche furono: Antiochia (341), Serdica (343), Sirmio (351 e 357), Ancira (358), Rimini/Seleucia (359) e Alessandria (362). Il termine ôpooùoioç fu variamente inteso e accolto o rifiutato a seconda che i rischi interpretativi andassero nella linea sabelliana o ariana, con le conseguenti derive dogmatiche, delle accezioni monarchiane o subordinazioniste.
Nel 268 il termine ôpooùoioç era stato condannato ad Antiochia, perché usato dal vescovo Paolo di Samosata secondo un’accezione monarchiana, la quale non permetteva di chiarire la reale distinzione tra Padre e Figlio12. Il termine, quindi, introdotto nella confessione di fede al Concilio di Nicea nell’ambito della condanna di Ario, doveva essere liberato da ambiguità già datesi precedentemente, ma lo sviluppo teologico dovette essere posteriore alla chiusura del Concilio imposta dall’Imperatore13. Dopo Nicea, infatti, nei sinodi di Antiochia (328 o 329) e di Tiro (335), i vescovi eusebiani riabilitarono Ario e deposero Atanasio. Uno sviluppo dogmatico si ebbe ad Antiochia nel 341, quando 97 vescovi eusebiani cercarono una mediazione tra l’arianesimo radicale e il Simbolo niceno, condannarono la posizione anomea, ma non ultilizzarono il termine ôpooùoioç pur accogliendo la dottrina origeniana delle tre ipostasi in Dio.
A Serdica nel 342 o 343, il sinodo universale, che aveva lo scopo di riunificare la comunione ecclesiale divisa tra Occidente ed Oriente, non ottenne se non la reciproca scomunica delle parti e non avanzo significativamente nella questione dogmatica riguardante la fides Nicaena pur avendola inclusa tra i punti piu importanti dell’ordine del giorno.
Il sinodo di Milano (345) condanno Fotino di Sirmio, discepolo di Marcello di Ancira, che concepiva il Figlio come Sùvapaç del Padre, alla stregua di un’energia impersonale mediante la quale il Padre agirebbe. Fu condannato il monarchianismo di questa interpretazione e il successivo sinodo di Sirmio, nel 351, depose Fotino.
Il seguente sinodo di Sirmio, del 357, diede un’altra svolta importante al dibattito trinitario: giacché l’imperatore Costanzo premeva per avere un’unica professione di fede che gli consentisse di unire l’intera estensione dell’Impero, i vescovi li riuniti decretarono che non si potesse usare nelle formule della fede alcun termine filosofico, e che soltanto le proposizioni attestate dalla Bibbia potessero essere interpretate dai fedeli secondo quanto realmente significano: essi le intesero come vera diversità tra Padre e Figlio, ma al contempo con la lieve subordinazione del Figlio al Padre. Per la prima volta un sinodo, pur salvando la divinità del Figlio, abrogava di fatto, in base al valore biblico dei nomi, il concetto centrale della fede di Nicea: l’ὁμoούσιος.
Basilio di Ancira promosse un sinodo nella sua città nel 358, con l’intento di correggere la formula dell’ὁμoούσιος con quella dell’ὅμοιος κατ’οὐσίαν, volendo riproporre all’attenzione dell’episcopato la condanna dell’ὁμoούσιος avvenuta ad Antiochia nel 268. Ne provenne la professione di fede omeousiana. L’imperatore Costanzo accolse la formula e depose 70 vescovi. Nel 359 convocó un doppio sinodo, in Occidente a Rimini, dove parteciparono vescovi omoousiani, e in Oriente a Seleucia, dove si trovarono i vescovi omeousiani. Nessuna parte andó incontro all’altra finché l’imperatore fece sottoscrivere a tutti i vescovi una formula unitaria secondo la quale il Figlio sarebbe ὅμοιος κατὰ τὰς γραφάς al Padre. Questa formula, ratificata nel 360 al sinodo di Costantinopoli, non risolveva la questione di quale tipo di similitudine si dovesse intendere14.
Morto Costanzo, nel 362 ad Alessandria, in un sinodo orientativo rispetto ad un futuro concilio, fu possibile una nuova libertà di pensiero per i vescovi, nelle questioni teologiche; grazie anche all’indifferenza dell’imperatore Valente verso le questioni interne della Chiesa, si apri negli anni successivi la via della mediazione teologica che distingueva nell’unica sostanza di Dio le tre ipostasi del Padre, del Figlio e dello Spirito. Questa via, introdotta e poi approfondita da Basilio di Cesarea e dai Cappadoci, divenne il punto di svolta sulla questione del senso dell’ὁμoούσιος al grande Concilio di Costantinopoli, nel 381.
Se, come afferma Sesboüé, Nicea è stato l’atto di nascita del linguaggio propriamente dogmatico della Chiesa15, è importante poter riconoscere come e fino a che punto la novità terminológica sia intervenuta per bloccare Temorragia di senso” della confessione antica16. Sul termine concettuale inserito a Nicea per esprimere la professione della fede apostolica, si incrociarono infatti diverse concezioni del “senso” dei nomi. I vescovi niceni intendevano l’ópooúoroç per indicare l’identità numerica tra il Padre e il Figlio, e con essa lo stesso grado dell’essere, l’unica oúaía: il canone anatemizzante di Nicea pone questo senso nello specificare che del Figlio non si deve dire che sia “da un’altra ipostasi o sostanza” (ἤ ἐξ ἑτέρας ὑποστάσεως ἤ οὐσίας)17. Gli omeousiani o eusebiani o semi ariani18, invece, cercavano una via intermedia tra nicenismo e arianesimo. Essi intendevano l’οὐσία una sostanza individuale che quindi si moltiplicava nel Padre, nel Figlio e nello Spirito, come le ὑποστάσεις, ma, al contempo era considerata la medesima divinità.
In Oriente grazie a Basilio di Cesarea e in Occidente grazie a Ilario di Poitiers, gran parte delle posizioni dottrinali omeousiane furono ricomprese in quelle omoousiane19.
Gli omei, termine coniato dalla storiografia moderna, sono i sostenitori della posizione dogmatica espressa dalla formula dell’ὅμοιος κατὰ τὰς γραφάς, imposta dall’imperatore, ma giacché non offrivano una soluzione teologicamente soddisfacente non ebbero molto seguito e presto scomparvero.
Con il 360 si apre una nuova fase di controversie e sviluppi teologici. Fu una tappa estremamente ricca di puntualizzazioni dottrinali ed ebbe nei Cappadoci i teologi delle soluzioni adottate poi a Costantinopoli nel 381.
Moingt defini la crisi ariana come uno “scisma del linguaggio”20; è possibile infatti classificare le diverse interpretazioni del simbolo di Nicea sulla base delle concezioni del rapporto che intercorre tra nome rivelato e realtà nominata. Ario interpretava Prov 8, 22 come una descrizione metafisica nella quale al nome corrispondeva univocamente una realtà21. Gli anomei, neoariani della seconda generazione, facenti capo ad Aezio ed Eunomio di Cizico, non potevano accettare alcun tipo di somiglianza in base ad una teoria della nominazione -e quindi ad una metafisica e ad una gnoseologia- che non permetteva loro di distinguere il senso della somiglianza22.
Nel 361, poco dopo l’elevazione alla dignità episcopale di Eunomio23, Basilio comunicava in una lettera a Massimo filosofo la propria posizione riguardo alla dottrina degli anomei i quali argomentavano la non-somiglianza (ἀν-όμοιος) della natura del Figlio rispetto a quella del Padre - motivo per cui oggi la critica filologica attribuisce ad Aezio, Eunomio e ai suoi discepoli anche il nome di eteroousiani, accanto a quello di anomei, proprio ad indicare che la non-somiglianza della natura significa il riferimento ad un’altra natura.
In questa lettera Basilio riconduce alla dottrina di Dionigi di Alessandria -vescovo di Alessandria negli anni centrali del III secolo (248-260 circa)- il seme della definizione non ortodossa dei vescovi anomei, i quali, dopo Nicea, rappresentavano una parte dell’episcopato che non aveva accettato la formula che definiva il Figlio ὁμo-ούσιος rispetto al Padre.
Non per malizia di giudizio, scrive Basilio, ma per l’enfasi posta in opposizione a Sabellio e per sostenere che il Padre e il Figlio non sono lo stesso soggetto (οὐ ταυτὸν τdetaferei”i Basilio in cui dice che Eunomio “di distinzione tra significato e senso...)orientali, Città Nuova, Roma 1993. detaferei”i Basilio in cui dice che Eunomio “di distinzione tra significato e senso...)orientali, Città Nuova, Roma 1993. ῷ ὑποκειμένῳdetaferei”i Basilio in cui dice che Eunomio “di distinzione tra significato e senso...)orientali, Città Nuova, Roma 1993.)24 -, Dionigi aveva distinti il Padre e il Figlio non soltanto secondo l’ipostasi (οὐχ ἑτερότητα μόνον τῶν ὑποστάσεως)25 ma anche secondo l’essenza (ἀλλὰ καὶ οὐσίας διαφορὰν)26 introducendo, cosi, la subordinazione della potenza e della gloria e perdendo egli stesso la retta dottrina (τῆς δὲ ὀρθότητος τοῦ λόγου διαμαρτεῖν)27.
Basilio spiega a Marcello che Dionigi non volle accettare il termine ὁμo-ούσιος perché i suoi oppositori lo adottavano nel senso di negare la realtà delle tre ipostasi28.
Il vescovo di Cesarea esprime dunque la propria posizione dopo aver messo bene in luce i significati attribuiti prima di lui alle medesime parole, avvertito della pericolosità delle parole equivoche. Basilio afferma che la sua opinione è di accogliere che il Figlio sia detto õpoiov Kaxoúaíav rispetto al Padre, ma soltanto se ciò viene inteso nel senso della invariabilità dell’essenza divina: l’essenza divina è immutabile (ἀπαραλλάκτως)29. Basilio si poneva cosi tra i vescovi che avevano aderito alla fede di Nicea, ed esplicitava il senso con cui li fu introdotto il termine ὁμo-ούσιος, ricomprendendolo nel senso dichiarato anche dalle altre formule appositive attribuite al Figlio: luce da luce, Dio vero da Dio vero. Con esse si intende -spiegava al filosofo Marcello- che l’Unigenito non ha meno gloria né meno potenza del Padre, perché non è possibile concepire alcuna variazione nella luce in relazione alla luce né della verità in relazione alla verità30.
La controversa interpretazione della formula di Nicea aveva già dato origine ai diversi Concili contrapposti nei quali le interpretazioni teologiche venivano a coincidere anche con posizioni politiche, piu o meno intrecciate alla benevolenza dell’imperatore, ma attraverso questa lettera di Basilio si può vedere come la questione venga posta decisamente nell’ambito della speculazione teologica31.
Le dottrine eteroousiane si stavano riproponendo con nuova enfasi negli anni Sessanta del IV secolo: Aezio, brillante diacono antiocheno che si era opposto alla fede nicena, fu condannato nel sinodo di Costantinopoli del 360, ma nello stesso sinodo il suo segretario, Eunomio, fu fatto vescovo di Cizico. Questi si poneva nella linea interpretativa che univa Dionigi di Alessandria alla controversia ariana, e che oggi è attingibile attraverso le citazioni che delle opere di Dionigi hanno tramandato Atanasio ed Eusebio. I termini della contesa sono riconducibili alle diverse interpretazioni sul senso dei nomi e sul rapporto ontologia, gnoseologia e nominazione. L’argomento si chiarifica analizzando le ricorrenze di σχέσις nell’opera di Basilio, che risponde all’Apologia di Eunomio32.
Σχέσις, nel vocabolario della contesa con Eunomio, si offre perciò come un vocabolo-crinale, che dirime tra la speculazione teologica che si avvaleva di una ontologia subordinazionista, monista ma non cristiana, e la prospettiva ontologica propriamente trinitaria, capace di distinguere le due nature, divina e creata, e di accogliere -mediante l’approfondimento della “relazione”- la distinzione personale nell’unica sostanza di Dio.
Σχέσις nell'Adversus Eunomium di Basilio: le ricorrenze
Per conoscere la valenza dell’introduzione del termine σχέσις nella controversia trinitaria, bisogna prendere le mosse dal considerare che dopo Nicea il nome del Padre era spesso assimilato al termine “ingenerato” (ἀγέννητος) e quello del Figlio al termine “genitura, prole” (γέννημα)33. Omoousiani, omeousiani e omei, facevano riferimento ai nomi rivelati, ma con Eunomio e Basilio, il dibattito sul valore dell’“ὅμοιος κατ’οὐσίαν”, cui era contrapposto l’“ἀν-όμοιος”, si ricentra sul senso dei nomi divini. Padre e Figlio vengono considerati in quanto referenti di qualcosa e da qui l’importanza dell’uso di σχέσις e le differenze interpretative sul senso della “relazione” tra Basilio, Eunomio e poi Gregorio di Nissa34.
Bisogna osservare infatti in quale contesto appaia per la prima volta il ricorso alla σχέσις tra il Padre e il Figlio. Eunomio, iniziatore della controversia, non volle subito adoperarlo. L’indice terminologico offerto da Vaggione non segnala alcuna occorrenza di σχέσις nel testo della Apologia, mentre ne riporta otto volte la comparsa all’interno della Apologia Apologiae; ritroviamo il termine nel secondo testo di Eunomio soltanto per quanto di esso viene riportato da Gregorio di Nissa, nel suo Contra Eunomium. Tra la prima e la seconda apologia si pone l’intervento di Basilio, che nel suo Adversus eunomium utilizza a sua volta σχέσις otto volte. Abbiamo buone ragioni, perciò, per credere che si tratti di un inserimento dovuto all’opera di Basilio35. Vedremo che non si tratta meramente di un dato lessicale, che riflette una maggior finezza gnoseologica o espressiva, perché Basilio vi attribuisce un valore ontologico36. Σχέσις enuclea il fulcro temático delle questioni teologiche legate al dibattito sull’ohoía del Figlio e seguirne l’inserimento, e le chiarificazioni terminologiche alle quali poi obblighera Eunomio, aiuta ad intendere la dinamica argomentativa della controversia e a identificare la portata teoretica dell’apofatismo dei Padri cappadoci.
Σχέσις compare nel discorso di Basilio in otto passaggi nei quali contesta ad Eunomio tre punti fondamentali del suo argomento sull’essenza del Padre e del Figlio e su come si debba intendere la loro somiglianza: (1) La connessione delle nozioni e del rapporto Padre-Figlio rispetto al rapporto ingenerato-generato; (2) come si debba intendere l’essenza divina rispetto alla sua azione; (3) come si debbano intendere i nomi relativi.
Dalla nozione di "ingenerato" all'essere-in-relazione di "Padre"
La prima ricorrenza è di ambito gnoseologico, a dire la connessione tra la nozione di Padre e quella di Figlio: se la nozione di ingenerato è per Eunomio l’equivalente del nome divino rivelato secondo le Scritture, del nome “Padre”, bisogna però considerare -sostiene Basilio- che la “nozione di Padre” implica “per mezzo della relazione (διὰ τῆς σχέσεως)” la “nozione di Figlio”.
Io direi che l’espressione di ingenerato, anche se pare massimamente convenire alle nostre nozioni (ταῖς ἐννοίαις ἡμῶν), non presente però in nessun luogo della Scrittura -e questo sarebbe il primo fondamento della sua blasfemia-, sia da passare a buon diritto sotto silenzio poiché la voce Padre ha certo un significato uguale a ingenerato, rispetto a cui (πρὸς τῷ) introduce però anche la nozione riguardo al Figlio, insieme con la stessa (con la nozione, συνημμένως ἑαυτῇ) per mezzo della relazione (διὰ τῆς σχέσεως).37
Basilio rimane sul medesimo piano del discorso, quale lo aveva impostato Eunomio nell’Apologia: si tratta di intendersi sulle nozioni (ἔννοιαι) e le implicazioni che le parole riferiscono della realtà presentata dalle Scritture38. Il riferimento ai nomi presenti nelle Scritture inserisce il nascente dibattito all’interno della sensibilità per la fonte scritturistica fomentata dal Concilio di Costantinopoli del 360, in risposta alla formula omeousiana. Eunomio non aveva adoperato la formula dell’ ὅμοιος κατὰ τὰς γραφάς ma aveva fatto riferimento alle Scritture dicendo di intendere la somiglianza tra il Figlio e il Padre come l’unica somiglianza dell’Unigenito, “secondo le sue stesse parole”, e rigettando invece la “somiglianza dell’essenza (τὴν κατ’οὐσίαν ὁμοιότητα)”39.
Basilio non entra, qui, nel merito del dibattito su quali nomi sia possibile utilizzare nel discorso teologico, e, rimanendo radicato nella Scrittura -scegliendo quindi la fonte di conoscenza precipua e legittima per entrambi-, offre una riflessione sulla specificità del nome relativo “Padre”40. Si riconosce l’argomentazione dei correlativi, che, come si ricordava con Morales, risaliva fino a Clemente d'Alessandria41; ma la finezza teologica di Basilio riguarda il riferimento alla “nozione” (ἔννοια): non c’è nozione di Padre senza che vi sia implicata quella di Figlio. E il motivo consiste proprio nella “relazione” indicata dal nome stesso. Basilio mostra qui di avere una diversa teoria della nominazione rispetto ad Eunomio: per quest’ultimo il nome indica, secondo una corrispondenza biunivoca nome-sostanza, l’essenza della realtà significata e ciò, nel suo ragionamento, arriva ad investire sia il nome relativo “Padre” sia la sostanza infinita “Dio”. Pretesa conoscitiva che Basilio considera blasfemia. Come aveva potuto Eunomio compiere tali riduzioni cognitive? La corrispondenza biunivoca infatti appare evidente dove Eunomio esprime con ostentata sicurezza l’identificazione tra il nome “ingenerato” e l’essenza di Dio42.
Eunomio aveva operato una doppia traslazione di significato che provocava una “emmorragia di senso”: dal nome di “Padre” alla nozione di “ingenerato” e dal nome di “Figlio” alla nozione di “generato”43, per poi elaborare speculativamente le nozioni senza piu mantenere l’adesione alla realtà significata dalla Scrittura. Alla sostanza di Dio Eunomio fa corrispondere soltanto la nozione di essere “ingenerato”. Basilio invece mostra che questa traslazione di significato ha introdotto una riduzione del senso del nome rivelato, tralasciando la relazionalità che il nome “Padre” introduce nel modo di essere di Dio, il Quale va pensato come Padre e Figlio e Spirito.
La differenza d’intendimento delle nozioni di Padre e di Figlio, che si manifesta nell’enfasi posta da Basilio sul διὰ τῆς σχέσεως, solleva la domanda sulla differenza che intercorre tra le due concezioni metafisiche, di Eunomio e di Basilio, e che si riflette sulle diverse gnoseologie e teorie dei nomi da essi utilizzati in ordine alla teologia44.
Eunomio sosteneva che la corrispondenza biunivoca nome-sostanza era stata suffragata dall’autoritá dei Santi. Aveva dichiarato, nella Apología:
[Per mostrare] che anche il Figlio è uno (infatti è Unigenito), trovavo che le parole proposte dai santi per mezzo delle quali proclamavano il Figlio sia genitura sia fattura (γέννημα καὶ ποίημα) ([parole] che manifestano nelle differenze dei nomi la differenza della sostanza) ponevano fine a preoccupazione e molestie.45
Un motivo che giustifichi come mai Eunomio non fornisca riferimenti filosofici a sostegno di tale ermeneutica potrebbe essere addotto all’occasione dalla quale ebbe origine l’Apologia, ma secondo alcuni studi Eunomio non era un retore dalla formazione filosofica sufficientemente estesa per poter essere davvero annoverato tra i filosofi greci del IV secolo46. Il vescovo anomeo non avrebbe fatto una teologia a partire dalle nozioni filosofiche di cui era in possesso, ma il suo approccio sarebbe stato una riproposizione della teologia della predicazione divina, elaborata attraverso le obiezioni che Atanasio aveva mosso al modo di intendere i nomi di Dio avanzati dai suoi contendenti. Secondo la ricostruzione di Del Cogliano, Eunomio sarebbe stato fin da subito piu simile ad un teologo tra i teologi del IV secolo che a un dialettico o a un filosofo greco. La questione teologica risiederebbe quindi nella valenza predicativa del termine ἀγέννητος.
La specifica affinità semantica, che apre la pista all’interpretazione della dipendenza del pensiero di Eunomio dagli argomenti di Atanasio piuttosto che dalla matrice neoplatonico-aristotelica, consiste in due premesse teoretiche: (1) La convinzione che i nomi sono determinati dalla natura del sostrato che nominano, poichè esistono prima le cose e poi i nomi; (2) la teoria di Atanasio della predicazione essenziale, che era fondata sulla dottrina della semplicità divina e che permetteva di affermare la possibilità di nominare l’essenza divina.
L’inserimento compiuto da Basilio, portando l’attenzione speculativa sulla specifica σχέσις del Padre e del Figlio, esige dall’eterousiano di soffermarsi a ripensare la differenza tra una distinzione di nozioni e una distinzione di sostanze a partire dalla reciprocità data dai nomi relativi e dalla complessità che l’essere-in-relazione pone a quella metafisica che identifica gnoseologia e ontologia.
Per contestare ad Eunomio che alla differenza dei nomi di “Padre” e “Figlio” corrisponda una differenza di sostanze, Basilio interviene in due modi: dapprima introduce la σχέσις come realtà ineludibile indicata dal nome del Padre - che oltre ad essere dato direttamente dalla Scrittura, introduce in Dio la nozione di Figlio; poi contesta che γέννημα, il termine utilizzato da Eunomio al posto di Figlio, sia una parola della Scrittura47.
Aggiungendo il riferimento alla σχέσις, Basilio innesta un elemento che Eunomio potrebbe apparentemente accettare, perché non si discosta immediatamente dal suo ragionamento ma si introduce nella stessa riflessione sui nomi, apportando un aspetto in più che cambia, pero, la conclusione e, in ultima analisi, la concezione dell’ontologia divina48. La σχέσις appare quindi come l’elemento che interrompe la riduzione di senso operata dal ragionamento di Eunomio49. Introdotta da Basilio in base ad una concatenazione di nozioni, la σχέσις del Padre e del Figlio è innanzitutto in contrasto con le definizioni anomee sulla conoscibilità dell’essenza divina e in seguito acquista rilevanza anche rispetto alla comprensione dell’azione (ἐνέργεια) di Dio.
Se il riferimento alla σχέσις qui compare nell’ambito della concatenazione di nozioni, bisogna osservare come accada che il rapporto tra nozioni, nomi e realtà divida Basilio da Eunomio. Seguendo i passaggi delle occorrenze di σχέσις, ci si accorge che essa compare prima e dopo i capitoli 12-14 del I libro deW’Adversus Eunomium, i quali costituiscono il punto dell’opera in cui Basilio giudica in modo differente da Eunomio il valore ontologico della nominazion50. Di fatto, l’importanza del riferimento alla “relazione” sposta l’attenzione del teologo dal rapporto gnoseologico che lega i nomi e le sostanze, al confessare un ordine ontologico in Dio che onori i nomi rivelati, secondo una ontologia nuova rispetto a quella utilizzata da Eunomio.
Essere e agire
Le successive tre ricorrenze di σχέσις indicano il rapporto tra l’essenza di Dio e le sue azioni, che si manifestano con i nomi diversi che Gli vengono attribuiti nelle Scritture. I nomi che Dio riceve sono, per Basilio, in funzione delle sue opere, ma ciò significa in funzione delle “relazioni” che Egli intrattiene con esse. Qui chiaramente l’autore mette a frutto le distinzioni già operate nei capitoli 12-14 del primo libro, tra οὐσία, ἔννοια, e ὄνομα51. “Conformemente alla differenza delle sue attività (ἐνεργειῶν), e alla relazione (σχέσιν) verso le cose da lui beneficate, anche i nomi Gli si danno differenti”52. L’osservazione riguardo alla diversità delle azioni di Dio, e dei nomi che in base ad esse Gli si danno, acquista un particolare rilievo se si legge alla luce delle “proprietà” (ἰδίωμα) e ) e della “relazione” (σχέσις) che Dio intrattiene con le sue opere53. Basilio rammenta che a Dio si attribuisce la relazione di Creatore di ogni ordine della natura. Σχέσις serve qui a dire il “rapporto” tra Dio e l’economia dell’ordine creato:
Quanto all’ordine, ve n’è uno naturale e uno artificiale. Naturale, come quello delle creature disposte secondo le ragioni del creatore, quello della posizione degli oggetti numerabili e del rapporto (σχέσις) delle cause rispetto alle cose causate, essendo già stato convenuto che, di esso come anche della natura stessa, Dio è autore e creatore.54
Questa occorrenza pone in luce un passaggio dell’opera di Basilio molto importante per la distinzione tra la metafisica del creato e l’ontologia divina. La delicata transizione è nella successiva distinzione tra σχέσις e λόγος. Qui sono equiparati: il λόγος del Creatore regge la τάξις φυσική e si manifesta anche come ἡ τῶν αἰτίων πρὸς τὰ αἰτιατὰ σχέσις. Ma nel passaggio successivo, invece, si introduce una differenza nella concezione della σχέσις. Considerando l’essenza divina, infatti, l’ordine da ammettere in Dio non puo essere lo stesso che si ammette tra le creature. C’è una σχέσις nell’ordine della natura creata, che non si differenzia dal λόγος delle cause e degli effetti. Ma anche in Dio c’è un ordine, una priorità - il Padre prima del Figlio. Secondo quale ordine va pensato tale ordine? Basilio rigetta che sia quello della differenza naturale, come invece sosteneva Eunomio introducendo in Dio la sequenza propria dell’ordine del tempo e differenziando il Padre e il Figlio secondo l’oùoia; Basilio sostiene, invece, che la priorità del Padre rispetto al Figlio sia secondo l’ordine della relazione “tra le cause e quanto è da esse” (κατὰ μὲν τὴν τῶν αἰτίων πρὸς τὰ ἐξ αὐτῶν σχέσιν). Basilio introduce quindi in Dio la concezione di σχέσις, cos'i come è nota nell’ambito della natura, ma negando che in Dio si dia secondo la differenza della natura (κατὰ δὲ τὴν τῆς φύσεως διαφορὰν οὐκέτι). Con questa svolta dimostra di aver guadagnato la differenza tra l’ontologia divina immanente e l’ontologia economica o della natura creata. Quella che nel II libro dell’’Adversus Eunomium definirà come la differenza tra “teologia” ed “economia”55. Tale guadagno teologico fondamentale riflette immediatamente il modo di concepire l’ordine della relazione.
Noi diciamo che il Padre precede il Figlio per il rapporto delle cause con quanto è da esse (κατὰ μὲν τὴν τῶν αἰτίων πρὸς τὰ ἐξ αὐτῶν σχέσιν), ma non secondo la differenza della natura, né per superiorità di tempo; cos'i infatti negheremmo che Dio stesso sia Padre, poiché la differenziazione per sostanza (τῆς κατὰ τὴν οὐσίαν ἀλλοτριότητος) nega la congiunzione naturale (τὴν φυσικὴν συνάφειαν).56
La σχέσις permette di pensare l’ordine della causalità in Dio, il Padre sorgente rispetto al Figlio, ma senza supporre la diversità delle sostanze e salvaguardando la congiunzione naturale (τὴν φυσικὴν συνάφειαν) oltre che l’immutabilità dell’essenza.
Che cos’è, dunque, questa congiunzione naturale che specifica la σχέσις divina immanente?
Per quanto sappiamo da Basilio, tale congiunzione non indica un rapporto necessario che lega nome e sostanza57; Basilio afferma attraverso questa pericope che non si dà in Dio la differenza (διαφορὰν) come nella natura né come nel tempo, perché se si affermasse la differenza della sostanza tra Padre e Figlio, si perderebbe la verità rivelata che Dio stesso è Padre. Basilio, introducendo la σχέσις a questo livello del discorso, sta riferendo di una ontologia non ancora pienamente delineata ma verso la quale il passo è già decisamente dato. Possiamo dire che attraverso l’ordine delle cause si intravede la distinzione netta tra le “relazioni” in gioco, che sono di tre tipi: la relazione tra la realtà e i nomi (σχέσις nell’ordine della causalità gnoseologica e della nominazione), la relazione Padre-Figlio (σχέσις nell’ordine ontologico immanente) e la relazione Dio-mondo (σχέσις nell’ordine ontologico economico).
È interessante accostare l’argomento di Basilio come risposta al passo parallelo della prima Apologia di Eunomio, al Capitolo 1058. Li infatti Eunomio contestava ai suoi avversari che l’intento di voler inserire in Dio la generazione era un dato in contrasto con la Scrittura, giacché in Dio non può esserci in alcun modo l’ordine dei rapporti del tempo e della natura. Desiderando perciò distinguere il piano ontologico di Dio da quello ontologico delle creature, ma avendo una teoria univoca del senso dei nomi, Eunomio legava necessariamente la relazione di generazione alle caratteristiche che essa ha tra gli esseri della natura creata. Per ribadire semplicità e immutabilità in Dio arrivava cosi a negare la relazione Padre-Figlio a livello ontologico immanente.
Insieme all’uso di σχέσις, nel passo di Basilio emergono due accezioni importanti di “natura” e di “congiunzione”. Il vocabolario non è ancora sufficientemente divers ificato e potrà nuovamente essere frainteso dall’anomeo; costituirà infatti il più centrale dei punti sulla σχέσις nella contesa con Gregorio di Nissa, poiché la “congiunzione naturale” di Padre-Figlio non è stata definitivamente caratterizzata da Basilio in base alla differenza che intercorre tra l’ontologia di Dio e l’ontologia della natura. Si dà perciò un’omonimia che conferisce ambiguità al discorso di Basilio: la formula κατὰ δὲ τὴν τῆς φύσεως διαφορὰν, a indicare la differenza tra l’ordine in Dio e l’ordine della natura creata -della natura nel tempo-, appare infatti accanto alla formula τὴν φυσικὴν συνάφειαν, “per la congiunzione naturale”, a indicare la relazione Padre-Figlio. In questo secondo caso, il riferimento alla natura (φυσικὴν), alla medesima essenza, indica l’ordine della relazione dettata dal nome Padre che riguarda la relazione in Dio, ma il concetto di ^doiq rischia di essere equivoco essendo applicabile anche alla generazione nell’ordine della natura creata che pero moltiplica le sostanze, e che quindi tornera ad investire anche la σχέσις immanente59.
Natura, naturale, sono qui termini equivoci, la cui equivocita si riflette nella accezione della σχέσις e della ouva^eta che Eunomio raccoglie per la sua successiva risposta.
Da quanto letto fin qui, emerge quindi gia chiaramente che la teoria dei nomi, le valenze delle attribuzioni e le estensioni dei campi semantici che sottendono ai ragionamenti sulla Trinita, hanno un ruolo dirimente nel dibattito che divide eteroousiani e omeousiani, e che la interpretazione della σχέσις ne e al centro. Inoltre l’influsso degli omei si percepisce nel riferimento costante alla terminologia della Sacra Scrittura.
Proprieta e relazione
Nel testo di Basilio appaiono altre quattro occorrenze, dove σχέσις compare in riferimento alla teoria dei nomi di Eunomio e si affronta la difficile questione dei nomi relativi60.
Basilio aveva gia sostenuto la priorita e l’eccedenza della realta rispetto ai nomi che la esprimono61. Puo cos'i distinguere i nomi che indicano una sostanza (nomi assoluti), la quale e di essi il sostrato cui si riferiscono (τῶν ὑποκειμένων), dai nomi che indicano soltanto la relazione (τὴν σχέσιν μόνην) che i sostrati hanno tra loro (πρὸς ἃ). Basilio puo in questo modo arrivare a distinguere, nel nome, l’oggetto significato dal modo della significazione62. Come Eunomio non aveva saputo fare.
Chi non sa, dunque, che tra i nomi, alcuni significano assolutamente e indicano mediante se stessi le realta che sono i loro sostrati, ma altri, detti in relazione ad altre cose (πρὸς ἕτερα λεγόμενα), rappresentano soltanto la relazione (τὴν σχέσιν) che e detta tra loro?63
I nomi relativi hanno la caratteristica di potersi intendere in tre sensi: (1) In senso ontologico: un nome relativo implica l’esistenza di un “altro” che ha il nome correlato (se esiste un padre, esiste anche un figlio); (2) in senso noetico-cognitivo: un nome relativo implica la nozione del nome correlato (“padre”, implica la nozione di “figlio”); (3) in senso ontologico relazionale: un nome relativo implica la relazione (se c’è padre, c’è paternità e filiazione)64.
Il nome relativo è dunque nome delle proprietà relative o della relazione stessa? Sembrerebbe che Basilio, rifacendosi alla trattazione delle categorie aristoteliche, riconduca i nomi relativi ad una nozione, dunque ad un atto conoscitivo, ma i nomi relativi che propone di seguito -quali figlio, schiavo, o amico- fanno tutti riferimento all’esistenza di una sostanza altra rispetto a ciò di cui sono detti. Basilio sposta dunque l’attenzione sul senso ontologico relazionale.
Questa precisazione è ciò che sostiene il ragionamento di Basilio: mentre nei primi punti del libro II dell’Adversus Eunomium, utilizzando le categorie stoiche, e sulla scorta di Origene, aveva distinto in base al pensiero degli Apostoli65 il senso delle attribuzioni a Cristo (ἐπίνοιαι), e sul fondamento della differente referenza aveva potuto ben distinguere teologia ed economia66, qui, mentre elabora il portato dei nomi divini e la σχέσις da essi indicata, Basilio pone l’attenzione sul referente relazionale cui il nome relativo fa riferimento. Invece di soffermarsi sulla nozione o sulla sostanza, quindi, si sofferma proprio sulla relazione (che esprimeva anche come φυσικὴ συνάφεια). Basilio evidenzia in questo modo come l’esistenza della relazione sia ciò che sostiene la possibilità stessa che ci sia ciò (Chi) di cui si dice il nome relativo:
Chi ascolta generato (γέννημα) non è portato con il pensiero verso qualche sostanza, ma pensa che sia congiunto (συναπτόμενον) a un altro. “Generato” infatti è detto generato da qualcuno. Ciò dunque non produce nessuna nozione (ἔννοιαν) di qualche sostrato, ma solamente significa la relazione di uno all’altro (τὴν πρὸς ἕτερον σχέσιν); come non è supremamente da follia stabilire che ciò sia una sostanza (οὐσίαν)?67
La radice di συνάφεια e di συναπτόμενον è la stessa, e il campo semântico è molto vicino a quello di σχέσις. Se dunque c’è un referente al segreto di un nome relativo, ciò è la relazione, e Basilio può iniziare a fare il passaggio alle considerazioni riguardanti il modo di essere di Dio, posto come referente implicito del nome relativo: ciò permetterà una maggiore aderenza al testo sacro, recuperando le proprietà della relazione in Dio in quanto descrittiva di un suo modo di essere conoscibile. Basilio può farlo perché nel trattare la valenza conoscitiva dei nomi assoluti, comuni e propri, ha già messo in luce come nessun nome possa esaurire la conoscenza delle sostanze, e dunque tantomeno i nomi relativi possono identificare sostanze differenti, ma soltanto proprietà (ἰδιώματα)68.
Su questo punto ci sembra che si possa essere piu prudenti riguardo all’interpretazione di DelCogliano, che assimila -considerando che siano come “funzionalmente sinonimi per Basilio”69-, le ricorrenze dei termini ἰδιότητες e ἰδιώματα. Precisamente in virtu della σχέσις non sembrano essere sempre sinonimi. Se ne può considerare un esempio.
Il riferimento alla differenza interpretativa del rapporto che intercorre tra nome e sostanza in Basilio ed Eunomio, appariva già chiaramente al Capitolo 4 del II libro dell’Adversus Eunomium, che fa riferimento alla teoria della nominazione esposta dall’anomeo al Capitolo 18 della sua Apologia. Li Eunomio stimava che con la differenza dei nomi (ταῖς τῶν ὀνομάτων διαφοραῖς) fosse dimostrata la diversità delle sostanze (τὴν τῆς ὀυσίας παραλλαγὴν)70. In questo modo poneva in opposizione l’univocità del significato dei nomi e l’analogicità del senso delle attribuzioni, escludendo l’analogia dall’orizzonte del linguaggio e limitando il senso della parola alla potenza di pensiero del soggetto conoscente. In questo modo si può riconoscere un certo logocentrismo, ante litteram, eunomiano. In riferimento alla questione trinitaria sulla somiglianza tra il Padre e il Figlio, con tali strumenti concettuali era impossibile affermare una somiglianza (ὁμοιότης) secondo l’essenza (κατ᾽οὐσίαν), né dire con un nome il senso di una relazione71.
Basilio riprende piu volte la formula eunomiana che attraverso i nomi differenzia le sostanze. Oltre al Capitolo 4 del II libro la si ritrova anche al termine dello stesso libro, ai capitoli 24-27.
Nel Capitolo 4, Basilio espone la sua tesi sulle proprieta (íSirópara) che sono espresse dai nomi propri72, precisando che essi designano le caratteristiche specifiche (χαρακτηρίζουσιν) delle sostanze (τῶν οὐσιῶν)73, non, in prima istanza, le sostanze stesse. In questo passaggio e giusto equiparare ἰδιότητες e ἰδιώματα perché di fatto compaiono in senso sinonimico.
L’esempio di Pietro, Andrea e Paolo, viene posto da Basilio per indicare che il nomeproprio sta a significare le caratteristiche che individuano la sostanza, non la sostanza in sé, la quale e qui esplicitamente intesa da Basilio quale sostrato materiale (τό ὑλικὸν ὑποκείμενον)74; al contempo, Basilio indica che la varieta dei nomi propri suppone una consustanzialita (τὸ ὁμοούσιον)75 degli uomini tutti. Ne deriva che le sostanze individuate e opposte, indicate indirettamente dai nomi propri di Pietro e di Paolo, suppongono la consustanzialita tra che cosa e Pietro e che cosa e Paolo. L’indagine sul piano ontologico e cosí in tal modo gia stata diversificata: la ricerca sull’essenza (o sostanza) si differenzia dalla ricerca sull’esistenza (o proprieta), esprimibili attraverso i nomi.
Ritroviamo i medesimi termini intorno alla successiva ricorrenza di σχέσις, al Capitolo 10 del II libro dell’’Adversus Eunomium: “E nessuno pensi, poiché e un fatto comune della relazione (κοινὸν τὸ τῆς σχέσεως), che ci sia qualche abbassamento della gloria dell’Unigenito”76.
Se si capisce il senso della o%éoiq, i nomi del Padre e del Figlio (e poi anche dello Spirito) sono nomi relativi che appaiono simili a nomi propri; essi stessi sono luogo della rivelazione del modo di essere di Dio in quanto alla relazione, e, per la stessa relazione, anche della differenza ontologica tra il Figlio, che e nell’immanenza dell’unico Dio, e le creature. Il Figlio infatti non e in rapporto ad altro se non alla propria essenza, che e divina perché stabilita dalla stessa relazione al Padre, e il Padre e Dio. Il passaggio prosegue cosí:
Infatti non e in rapporto a qualcosa (ἐν τῷ πρός τί πως ἔχειν) che il Figlio ha la differenza (διαφορὰ) rispetto alle altre cose (πρὸς τὰ ἄλλα), ma nella proprieta della sostanza (ἐν τῇ ἰδιότητι τῆς οὐσίας) si manifesta l’eccedenza (ὑπεροχὴ) di Dio rispetto agli esseri mortali.77
In che cosa consiste dunque qui per Basilio la “proprietà della sostanza” del Figlio? Ci troviamo con gli stessi problemi di traduzione di oboía, se con sostanza o con essenza, se indica un sostrato o delle proprietà. Se per essenza divina indichiamo il modo di essere proprio di Dio, stiamo intendendo quello che Gregorio indicherà con ilπως εἶναι78. Invece se indichiamo ciò di cui si indica il modo di essere, il cosa è (τί ἐστιν), poco sopra Basilio aveva specificato che di Dio neanche ai Santi è dato di conoscere la sostanza79. Eppure, con i nomi rivelati di Padre e Figlio e Spirito, le Scritture danno un orientamento molto concreto sull’oboía di Dio.
I capitoli 9 e 10 del II libro dell’Adversus Eunomium si presentano particolarmente ricchi di riferimenti utili alla comprensione della σχέσις in Dio, secondo la teologia di Basilio. Il tenore dell’argomentazione si estende alla proprietà (ἐν τῇ ἰδιότητι) e alla partecipazione dalla sostanza80, facendosi evidentemente un discorso sui modi dell’essere (ontologico), e non soltanto sulla conoscibilità e nominabilità di Dio (gnoseologico).
Entriamo cosí nel cuore della contesa con Eunomio. La sua teoria dei nomi era infatti per Basilio null’altro se non il frutto di una falsa traslazione (Ὁ δὲ [...] μεταφέρει)81 dei significad dalla Scrittura alla teologia, nella quale egli perdeva il pensiero degli Apostoli (ἡ τοῦ Ἀποστόλου διάνοια)82, e arrivava a travisare completamente il significato di generazione in Dio. Eunomio non comprende la relazione tra Padre e Figlio in Dio perché non sa intendere il senso che può assumere in Dio il rapporto tra ingenerato e generato, avendo ancorato il referente del generare alla connessione tra nomi e sostanze e dunque alla passione che ne accompagna l’esistenza nel mondo creato.
Cosí gli contesta Basilio, con l’ottava e ultima ricorrenza di σχέσις dell’Adversus Eunomium:
Pertanto è palese a chi riflette, che questi nomi -intendo “padre” e “figlio”- non mirano ad evocare principalmente né primariamente la nozione delle passioni corporali, ma intesi per se stessi (καθ’ἑαυτὰ) indicano soltanto la relazione reciproca (πρὸς ἄλληλα σχέσιν).83
Con la formula “καθ’ἑαυτὰ μὲν λεγόμενα” Basilio sta isolando il campo semantico dei nomi “padre” e “figlio”, alla sola relazione reciproca “τὴν πρὸς ἄλληλα σχέσιν ἐνδείκνυται μόνην”. Sembra cosi trattarli come nomi propri della relazione. Puo essere utile leggere tale ricorrenza di σχέσις alla luce di Adversus Eunomium II, 28 e 29, per prestare attenzione alla distinzione che per la σχέσις emerge in Dio, con la distinzione delle proprietà.
In AE II, 28, 27-2884, Basilio afferma che le proprietà della coppia terminologica “generato” vs “ingenerato” sono proprietà distintive (γνωριστικὰς ἰδιότητας), legate alla conoscenza (γνωριστικὰς) e che, considerate (ἐπιθεωρέω) nella sostanza (τῇ οὐσίᾳ), “conducono per mano” alla nozione (ἔννοια) di Padre e di Figlio. Cio che si oppone nelle nozioni di generato e ingenerato, sottolinea Basilio, non è la differenza nell’oùoia, ma la differenza di proprietà distintive, conoscibili in base alle nozioni significate dai nomi. Se ci fossero dei caratteri distintivi dell’ovaia divina, dice Basilio, certamente non potremmo mai essere in grado di comprenderli.
Ora, questo come dei nomi relativi (relativo all’οὐσία) è un come relazionale. È in questo passaggio che la distinzione tra ἰδιότητες e ἰδιώματα viene alla luce. In Adversus Eunomium II, 28, 35-3685. Basilio usa iSimpaxa versus Koivôv. La divinità è comune (κοινὸν μὲν ἡ θεότης) e la caratterizzazione (ἰδιώματα) non pertiene alla coppia terminologica “generato” vs “ingenerato”, ma alla coppia paternità-filiazione (πατρότης καὶ υἱότης); Basilio dice della caratteristica propria alle righe 43-47: la natura (ἡ φύσις) delle proprietà è di mostrare l’alterità (τὴν ἑτερότητα) nella identità dell’essenza (τῇ τῆς οὐσίας ταυτότητι). Le ἰδιώματα si distinguono πρὸς ἄλληλα, reciprocamente, come contrarie, ma non dividono la sostanza (τῆς οὐσίας μὴ διασπᾶν). Nel πρὸς ἄλληλα c’è dunque la specificazione della σχέσις. Paternità e Filiazione sono proprietà distintive nella sostanza e nell’unità della sostanza mostrano un’alterità relazionale. Le ἰδιώματα di paternità e filiazione indicano dunque l’essere relazionale nella sostanza, e non l’essere relativo alla sostanza.
Quasi al termine del secondo libro dell’Adversus Eunomium86. Basilio torna ad usare la formula γνωριστικαί ἰδιότητες applicandola alla coppia generato-ingenerato, per dire i caratteri distintivi che specificano le proprietà: ingenerato è attributo relativo al nome relazionale Padre, proprietà che fa capire la nozione particolare di Padre nell’oÚGÍa divina; le ἰδιότητες γνωριστικαί dicono dunque il come identificativo della relazione secondo la nozione (ἔννοια) da noi conoscibile, ma non dicono l’essenza divina.
Certamente il vocabolario teologico di Basilio appare ancora fluido87. Ma, forte della distinzione tra nomi e sostanza e tra nomi propri e nomi relativi88, Basilio ha gli strumenti concettuali per distinguere che cosa sia predicabile e cosa non sia predicabile della οὐσία divina in base ai nomi rivelati, e può intendere i nomi relativi di Padre e Figlio come nomi propri della relazione che esiste nell’unica essenza divina, facendo cosi un sensibile passo avanti verso la chiarificazione del senso dell’ “ὅμοιος κατ’οὐσίαν” e della distinzione trinitaria nell’unica sostanza di Dio89.
Quale valore di conoscenza attribuire quindi ai nomi relativi rivelati?
Basilio si muove nella stessa linea tracciata in quegli anni -o poco prima- da Atanasio, il quale nella seconda lettera a Serapione comparava gli ariani ai Sadducei, che non comprendendo il senso delle Scritture si scandalizzavano e si opponevano al Cristo, convinti che ciò che non potevano concepire non potesse neppure essere90.
Rispetto ad Eunomio, Basilio, pur delineando l’orizzonte apofatico, ossia l’inconoscibilità dell’essenza divina, mostra una maggior fiducia nella ragione. Pur sospendendo, infatti, riguardo al discorso su Dio, l’univocità e la pienezza del senso delle nozioni, apre lo spazio dell’analogia e legittima la pluralità dei predicati di Dio. Con il suo nozionalismo -cos'i come lo ha definito DelCogliano- apre lo spazio al linguaggio metaforico: nessuna parola esaurisce la nozione, come nessuna nozione esaurisce la realtà; al contempo amplia la possibilità della conoscenza delle proprietà di Dio, affermandone anche nettamente la assoluta trascendenza. Basilio pone pure una differenza tra il valore dei nomi rivelati che chiamano la Trinità (valore ontologico) da quello degli altri nomi attribuibili attraverso le ἐνεργειαί (valore gnoseologico).
È possibile dunque evidenziare che attraverso il ricorso alla σχέσις Basilio si è immesso e ha trasformato l’andamento delle due vie tracciate da Eunomio nella Apologia per illustrare il suo credo trinitario, che espresse quasi come manifesto metodologico al Capitolo 20:
Ci sono due vie, marcate per noi per la scoperta di quanto ricerchiamo, una è quella attraverso la quale indaghiamo le essenze (καθ ἥν τὰς οὐσίας αὐτὰς) [...] l’altra è un’indagine attraverso le azioni (τῆς διὰ τῶν ἐνεργείων) [...] e nessuna delle due vie menzionate puo mostrare alcuna apparente somiglianza delle essenze (τὴν τῆς οὐσίας ὁμοιότητα δυνατόν).91
L’indagine teologica circa lo statuto ontologico del “Figlio” è stata percio manifestamente trasfigurata da Basilio attraverso l’elaborazione della relazionalità in Dio.
Conclusione
Seguendo le due vie tracciate da Eunomio per stabilire l’ontologia del Figlio, quella dell’oùoia e quella delle ἐνέργειαι, Basilio ha quindi affermato sulla via dell’οὐσία la somiglianza secondo l’essenza mediante una σχέσις che conserva la “congiunzione naturale”, e -tenendo ben fermo il principio dell’immutabilità dell’essenza divina- ha considerato la coppia terminologica Padre-Figlio secondo la relazionalità ad essa implicita di paternità-filiazione. “Ingenito” e “generato” sono percio proprietà che in Dio caratterizzano laparticolarità della relazione immanente alla sostanza e non, come li intendeva Eunomio, moltiplicatori di sostanza. Sulla via invece delle ἐνέργειαι, la differenza introdotta da Basilio attraverso la σχέσις compare nella distinzione del modo di intendere la causalità propria di Dio nella relazione: come Creatore, rispetto a tutte le realtà, e come Padre rispetto al Figlio. La distinzione del rapporto di causalità secondo la relazione (paternità e filiazione immanente), dalla causalità secondo le ἐνέργειαι (Creatore), tutela l’immutabilità dell’essenza divina e introduce il valore analogico della relazione tra come Dio è nella sua essenza e come è in rapporto agli enti creati; cio si ripercuote direttamente anche sul valore conoscitivo attribuibile al linguaggio che si esprime su Dio e al modo di intendere Colui che è il Λόγος di tutto cio che esiste.
Il guadagno teologico di Basilio riguardo all’inserimento della σχέσις nel dibattito sull’oùoia divina puo quindi essere compendiato dalla distinzione tra relazione in Dio e relazione fuori da Dio. Come abbiamo cercato di mostrare, la distinzione è stata resa possibile dall’elaborazione filosofica che Basilio ha compiuta articolando in modo molto attento il rapporto tra il piano ontologico e quello gnoseologico, e tra quello gnoseologico e quello della nominazione92. Appare cosi come tale modo di fare teologia nel IV secolo abbia ancora molto da insegnare a chi si impegna a riflettere sul valore ontologico della relazione e per la comprensione della salvezza cristiana nel contesto del mondo attuale93.