Sotto l'influenza inglese, il 19 luglio 1812, il parlamento siciliano, riuni-to in sessione straordinaria, votava gli articoli della nuova Costituzione. L'esperienza costituzionale del 1812 è secondo molti studiosi da considerare "laboratorio costituzionale" 1 mediterraneo. L'intento del Governo inglese era di esportare un modello costituzionale liberale e un decentramento amministrativo di stampo anglosassone contro il di-lagare del modello "democratico-borghese" napoleonico.
Secondo Sciacca2, è necessario rimarcare le differenze sostanziali tra la carta siciliana e quella spagnola di Cadice. Mentre quella spagnola pare rivendicare l'ideologia politica del 1789, battendo l'accento sul po-tere legislativo, quella siciliana, di modello inglese, pur inserita tra le "innovatrici", costituisce una sorta di apertura verso i successivi espe-rimenti tra Direttorio e Restaurazione. E ció non solo in virtü della sua palese moderatezza, ma anche per i suoi contenuti "compromissori", tipici delle costituzioni restaurate3.
I due modelli di "carte" sono da leggere in relazione ai due diversi tipi di costituzionalismo inglese e francese, la cui differenza sostanziale è appunto da ricercare nelle diverse finalità politiche. Il sistema inglese, liberal-moderato, sottolineava la supremazia del potere esecutivo, quello francese-giacobino dava risalto al potere legislativo, concetto espresso già nella costituzione del 1791 e, in modo particolare sotto il profilo giuridico-costituzionale, nella costituzione del 1793.
La Costituzione siciliana del 1812, fortemente voluta dagli inglesi e scritta per i baroni siciliani, con uno sguardo rivolto ad un generico modello inglese, rispondeva alle aspirazioni autonomistiche sicilia-ne dal regno di Napoli (autonomia administrativa), ma anche agli interessi economico-sociali degli aristocratici dell'isola e agli interes-si commerciali degli inglesi (Il conflitto scoppiò nel 1810, quando il parlamento siciliano rifiutò al sovrano il richiesto donativo di 360.000 once con cui avrebbe potuto finanziare una spedizione militare contro Joachim Murat. Senza che il parlamento venisse consultato, il 14 feb-braio 1811 furono pubblicati tre decreti: con il primo erano dichiarati beni di proprietà della corona tutti i beni dei comuni e i beni di patronato regio della Chiesa; con il secondo si ordinava per detti beni una lotteria di 200.000 once; con il terzo si introduceva una tassa dell'1% sopra qualsiasi pagamento fatto per pubblica e privata scrittura. Con questi decreti i principi di Castelnuovo e di Belmonte scrissero una protesta indirizzata alla Deputazione del Regno. I baroni chiesero anche l'intervento dell'ambasciatore inglese in Sicilia, Lord Amherst. Questi, che stava per essere richiamato in Inghilterra, non intervenne a favore dei baroni, ma si limitò solo a protestare, insieme al generale Stuart, contro la tassa dell'1% che danneggiava il commercio inglese. La tassa, quindi, penalizzava i traffici commerciali dei mercanti inglesi presenti in Sicilia! Nella notte del 19 luglio 1811, Maria Carolina fece arrestare i principi di Belmonte, di Castelnuovo, di Villafranca, di Aci e il duca d'Angiò. I primi due li fece chiudere nelle prigioni di Favig
nana, il terzo in quelle di Pantelleria, il quarto ad Ustica e l'ultimo a Marettimo)4.
La Costituzione del 1812 ha carattere pattizio e, come tutti i contratti, esprime gli interessi e le prerogative delle parti contrattuali (gli inglesi, i baroni siciliani, il re e sullo sfondo la Chiesa Cattolica). Il re svolse un ruolo decisivo in quanto espresse su ogni articolo proposto dal parlamento il placet o il vetat. Dunque, non fu una Costituzione imposta al re e non fu una Costituzione octroyée.
Alla Costituzione siciliana del 1812 viene generalmente riconosciuto l'attributo di "liberale". Se per "liberale" intendiamo un documento fondato sulla separazione dei poteri costituzionali e su un'effettiva li-mitazione dei poteri del sovrano, allora possiamo considerare liberale la costituzione del 1812. Qui, peró, fra i corpi costituzionali, rispetto all'esperienza inglese, non è protagonista la borghesia, dunque, costi-tuzione liberale non può assumere il significato di costituzione borghe-se, ma può dirsi costituzione aristocratica.
Una svolta si ebbe con l'arrivo a Palermo di Lord William Bentinck, ministro plenipotenziario e comandante generale delle forze britanniche di terra e di mare del Mediterraneo. Ferdinando IV fu costretto a cedere alle pressanti richieste del plenipotenziario inglese e cosi il 16 gen-naio 1812 conferi al figlio Francesco il titolo di vicario generale. Lord Bentinck assunse il comando di tutte le forze della Sicilia, aboli la tassa dell'1% e richiamó i baroni che erano stati imprigionati. Venne formato un nuovo governo composto di soli siciliani che diede l'incarico di stendere il piano di una nuova Costituzione per la Sicilia all'Abate Paolo Balsamo (l'opera di Blackstone5 fece da guida per gli estensori della carta, ma non mancarono i contrasti tra i baroni sull'interpretazione dei principi). Completato il progetto di costituzione venne diramato l'ordine di convocazione del parlamento che apri la prima sessione il 18 luglio 1812, il 20 approvó gli articoli fondamentali, che ricevettero la sanzione sovrana il 10 agosto. Il parlamento approvó nei mesi succes-sivi tutta la costituzione e fu sciolto il 4 novembre 1812 (il 25 maggio 1813 la Costituzione venne pubblicata e l'8 luglio dello stesso anno si riuni il primo nuovo parlamento).
Non sono pochi a sostenere che alla fine, leggendo il testo costituziona-le, di costituzione inglese rimane ben poco 6. Ma vediamo piü da vicino per quali motivi.
L'ordinamento giuridico inglese si è costituito attraverso una graduale esperienza costituzionale che ha dato vita nei secoli a documenti scritti che consacrano le libertà degli uomini. La costituzione inglese è il risultato di difficili rapporti politici tra diversi corpi costituzionali che in modo pragmatico hanno tentato di tradurre in termini giuridici l'esigenza di garantire diritti di proprietà e libertà nei rapporti spesso conflittuali con i sovrani inglesi. Sono le libertà conquistate dai baro-ni attraverso documenti feudali di carattere pattizio e particolaristico7. Nel Seicento, si rafforza e si consolida il peso politico della borghesia commerciale e finanziaria e dell'aristocrazia terriera8 di fronte al re. Il sistema si evolve verso la monarchia parlamentare quando il parlamento diventa l'unico vero detentore del potere legislativo, mentre il potere del re si svuota politicamente e diventa puramente formale. Il parlamento ormai determina l'indirizzo politico attraverso i ministri: all'inizio uomini legati da un rapporto di fiducia con il re, ma quando il parlamento sarà convocato regolarmente ogni anno, ció permetterà una sua maggiore influenza sull'indirizzo politico a tal punto che sarà necessario che i ministri siano uomini di sua fiducia.
La situazione politico-costituzionale siciliana sembra invece qualifica-bile come sistema a "monarchia limitata", dove il potere di indiriz-zo politico spettava ancora al sovrano ed il parlamento agiva soltanto come "limite" al potere regio. Il re era ancora l'autorità suprema del regno ed era affiancato da una ristretta oligarchia baronale. Se quindi analizziamo la situazione siciliana dal punto di vista sociale, economico, politico, giuridico e soprattutto se guardiamo agli attori costituzio-nali dell'epoca, tutto ci riconduce all'esperienza costituzionale inglese precedente alle due rivoluzioni del Seicento, che è generalmente consi-derata come monarchia limitata dai poteri del parlamento9.
Il sistema inglese, invece, già nel Seicento poggiava su due soggetti costituzionali, il re e il parlamento, entrambi godevano di poteri che si bilanciavano: il re aveva il potere di sciogliere il parlamento a sua discrezione, il parlamento poteva esercitare il potere di accusare e di giudicare i ministri del re per alto tradimento. Gli eventi rivoluzio-nari del 1688 rappresentano una manifesta rottura della continuità dell'ordinamento istituzionale, che fino ad allora era dualistico, cioè si reggeva sulla legittimazione dinastica del re e su quella del parlamento inteso come luogo di rappresentanza politica della nobiltà e borghesia. Con la rivoluzione, quindi, si interrompe temporaneamente il sistema dualistico con il solo parlamento che assume la funzione di guida del sistema, anche se evita di autoproclamarsi organo supremo. Il parlamento inglese afferma il suo potere costituente, oltre a chiamare (eleggere) al trono Guglielmo e Maria principi di Orange, in due im-portanti atti: il Bill of Rights e l'Act of Settlement.
Si comprende facilmente allora che nei fatti costituzionali siciliani, pur in presenza di due corpi costituzionali (re e parlamento), non si possa parlare di rimedi convenzionali tali da ricondurlo all'esperienza inglese. Tanto meno si puó parlare di rottura costituzionale. Nella situazione siciliana non si puó evidenziare una manifesta rottura della continui-tà dell'ordinamento istituzionale, che rimane dualistico, cioè si regge sulla legittimazione dinastica del re e su quella del parlamento inteso come luogo di rappresentanza prevalentemente della nobiltà siciliana. Nel 1812 il sistema dualistico non si interrompe nemmeno temporaneamente, il parlamento assume si una funzione importante nella redazione della carta costituzionale, ma non si autoproclama organo supremo. Il parlamento siciliano non è stato espressione di potere costituente10 e non ha concentrato in sé tutto il potere. A smentire queste affermazioni sono prima di tutto i fatti costituzionali: il nuovo governo diede l'incarico di stendere un piano di Costituzione a Paolo Balsamo. Completato il pro-getto, fu convocato il parlamento con le regole pre-vigenti. Il parlamento approvó gli articoli fondamentali e successivamente tutta la Costituzio-ne. Per assemblea costituente si intende un'assemblea eletta per lo piü a suffragio ampio, e incaricata di redigere una Costituzione. In quel caso l'assemblea è espressione di potere costituente. Il parlamento siciliano del 1812, per modalità di elezione, convocazione e composizione sociale dei membri non puó essere considerato "assemblea costituente" e, di conseguenza, non è stato espressione di "potere costituente". Le parole di Balsamo non lasciano dubbi:
"Con l'organizzazione del nuovo ministero si diede moto e si accelerò il pro-getto, che stava tanto a cuore a lord Bentinck, di dare alla Sicilia una nuova costituzione. Ne aveva egli parlato replicatamente a' principi di Belmonte e di Castelnuovo [...] Per lo che a'primi difebrajo ne discorsero essi con l'abateBalsamo segretamente e d'accordo risorsero di occuparsene con praticare le minori possibili innovazioni nell'attuale forma di governo con adottare per guida nelle correzioni dafarvisi la costituzione d'Inghilterra [...]e con rigettare i principi della costituzione francese e spagnuola, che sono troppo democratiche [...] fu in-caricato l'abate Balsamo di studiare, quanto piü potesse di costituzione siciliana e britannica, e obbligare e presentare degli articoli, che senza distrugger molti, riformassero e migliorassero l'esistente politico edificio del regno [.]al primo di maggio si convocò il Parlamento e co' migliori auspici, stante il potere e il favor popolare di Bentinck e dei di lui aderenti, e l'abbattimento e il discredito dei loro nemici. Le procure di fatto dei baroni e degli ecclesiastici assenti caddero nel maggior numero, e senza gran sforzi e contrasti, sopra i piü fermi patriotti"11.
Il parlamento, inoltre, non era il luogo di rappresentanza della Nazio-ne12, la Sicilia era ancora divisa in ceti, corporazioni, città demaniali e feudali. Nel caso della Sicilia dei primi dell'Ottocento, si puó parlare di parlamento quale espressione della nazione solo con particolare riferi-mento ai baroni, che attraverso il parlamento agivano solo come limite al potere del sovrano. Questa situazione puó essere qualificata come "monarchia limitata".
Dal punto di vista storico-politico, la "nazione", in quanto persona giuridica astratta, si considera soggetto distinto dal sovrano e dai cittadini che la compongono. Ma il concetto di "nazione" puó anche essere inteso (nonostante le diatribe dottrinali) come comunanza di valori so-cio-culturali, morali e storico-politici i cui soggetti appartenenti hanno consapevolezza di tale comunanza ed esprimono un forte sentimento comune. Se la "Nazione" è figura (giuridica) distinta dal re e dal popolo (ma il re la rappresenta presso le potenze straniere, art. 1, Capo I del Titolo II), il parlamento comunque non è il luogo di rappresentan-za della "Nazione", non solo perché non c'è un richiamo formale, ma perché i due principali attori costituzionali sono il sovrano e i baroni.
Quando si attribuisce la titolarità della sovranità alla nazione o al popolo è inevitabile chiedersi come il "titolare" eserciterà il potere politico. L'unica risposta possibile è tramite rappresentanti. Una volta affermato il principio rappresentativo, individuare il titolare della so-vranità nella "nazione" in quanto persona giuridica unitaria (Costi-tuzione del 3 settembre 1791, artt. 1 e 2 del Titolo III) o nel popolo, in quanto insieme della generalità dei cittadini (Atto costituzionale del 24 giugno 1793, art. 21 e Costituzione del 5 fruttidoro anno III, art. 213) significa individuare un principio di legittimazione "dal basso" sul quale basare il fondamento del potere politico nel consenso dei soggetti go-vernati. Nel caso siciliano dei primi dell'Ottocento, il consenso inves-tiva sicuramente una parte molto piccola dell'elemento popolare (solo l'alta e media borghesia agraria e mercantile) di conseguenza, risulta difficile pensare ad un principio democratico in grado di legittimare la sovranità del parlamento in quanto espressione della "nazione" (ma non del popolo).
Non è del tutto condivisibile la tesi secondo cui la Costituzione siciliana del 1812 "introduceva, ed in termini suficientemente moderni, la presenza dello stato come incarnazione giuridica e storica della nazione, non piü ad essa termine contrapposto, risolvendo, sia pur temporaneamente, quel dualismo che aveva caratterizzato la storia delle istituzioni politiche siciliane prima di allora"14, in quanto il sistema costituzionale siciliano del 1812 rimane "dualistico" e i due principali attori sono il sovrano da un lato e gli aristocratici dall'altro; la "nazione" in quanto entità giuridica as-tratta, non puó agire direttamente ma per delegazione. Ne consegue che il parlamento poteva rappresentare solo una parte della società siciliana, cioè solo quella frazione rappresentata in parlamento. I dele-gati rappresentano i propri elettori, poiché il parlamento era composto prevalentemente da baroni e da notabili, quest'ultimi eletti sulla base del censo, ne consegue che quel parlamento non poteva rappresentare la "nazione" (in questo caso il concetto "nazione" deve essere inteso nell'accezione "romantica"), ma soltanto una parte della società siciliana, cioè solo quella rappresentata in parlamento.
A parte la vexata quaestio sul binomio "Stato apparato/Stato comunità", il parlamento è pur sempre organo dello Stato, ma il parlamento do-vrebbe rappresentare l'intero popolo - non una frazione di esso - e solo per questa via potrebbe costituire lo strumento attraverso cui l'apparato "Stato" dovrebbe formalmente subordinarsi all'intero popolo.
Restando ancorati al significato "romantico" di "Nazione" (in realtà "nazione" è una figura giuridica astratta) anche la tesi secondo cui la nazione siciliana "sembrava diventare Stato, sembrava condividere insieme al monarca la sovranità"15 rimane impigliata sulla scarsa "rappresenta-tività" del parlamento siciliano del 1812. Solo se il parlamento avesse rappresentato tutto il popolo siciliano si sarebbe potuto parlare di "condivisione della sovranità" pur nell'ambito di un sistema "dualisti-co" e non "monistico" (fusione "parlamento/governo") per raggiunge-re il quale nell'esperienza costituzionale italiana sarà necessario atten-dere ancora molti anni.
Il parlamento siciliano appare formalmente organizzato secondo il principio della rappresentanza generale, anche se leggendo il testo costituzionale, in particolare le norme relative al potere legislativo (dal Capo IV al Capo XXV), sono rintracciabili residui giuridici del pas-sato che, se non conducono a conclusioni aporetiche, farebbero peró propendere per un parlamento organizzato secondo il principio della rappresentanza per interessi16. Per comprendere meglio questa im-postazione è preferibile fare un passo indietro, piü precisamente nella Francia rivoluzionaria (e dopo liberale), in cui, almeno sul piano formale, si era realizzata una società senza corpi intermedi.
L'affermazione dello Stato liberale ha portato alla eliminazione dei cor-pi intermedi17, in questo modo dal punto di vista giuridico, la società si è presentata come formata da singoli individui formalmente eguali davanti alla legge. In questo modo, il rappresentante non era piü espres-sione di "corpi" che non esistevano piü, ma doveva agire nell'interesse generale. Ecco la grande trasformazione della rappresentanza. Da rap-presentanza di interessi diventa rappresentanza politica, ovvero una si-tuazione nella quale il rappresentante, adesso chiamato a perseguire gli interessi della nazione, non puó essere soggetto a mandato vincolato.
Questa trasformazione è avvenuta durante la rivoluzione francese. La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789) afferma, tra gli altri, un grande principio di organizzazione politica: quello della so-vranità nazionale: "Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmen-te nella Nazione. Nessun corpo o individuo puó esercitare un'autorità che non emani espressamente da essa" (articolo 3). Questo principio fu inserito nell'articolo 1 (Titolo III) della Costituzione del 3 settembre 1791: "La sovranità è una, indivisibile, inalienabile e imprescrittibile.
Essa appartiene alla Nazione; nessuna sezione del popolo, né alcun individuo puó attribuirsene l'esercizio".
Il principio della "sovranità nazionale", fondata su una teoria per certi versi sottile18, è stata in realtà elaborata per raggiungere scopi moltopratici, di natura politica. Se la sovranità non appartiene al monarca, come si sosteneva nell'antico regime, e non appartiene agli individui che compongono la società, come teorizzato da J.J. Rousseau, cioè dai democratici-radicali, viene allora trasferita alla "Nazione", questa con-siderata come un soggetto distinto dai cittadini che la compongono. Viene affermato un concetto di "Nazione" come persona giuridica distinta dai singoli individui che ne fanno parte. Scrive Mortati:
"In precedenza la unitarietà della volontà sovrana era garantita dalla persona del monarca assoluto: la Rivoluzione francese vuole rinnegare radicalmente il principio assolutistico, ma non il principio unitario della volontà sovrana. A tal fine fa ricorso al concetto di "nazione". Con tale concetto si vuole indicare una realtà diversa da quella del "popolo" nella sua molteplicità disorganica: infatti il concetto di nazione implica Vunità di tutti gli appartenenti al popolo attorno ad un'idea, un'aspirazione ed un sentimento comune. Ma attraver-so il concetto di "nazione" si vuole realizzare un altro scopo, oltre quello di affermare un nuovo principio che salvaguardi Vunità della volontà sovrana in sostituzione del vecchio principio che si incarnava nella persona del monarca: si vuole cioè legittimare il predominio della classe borghese e giustificare la struttura "aristocratica" di questo primo tipo di Stato liberale. Infatti sebbene il popolo partecipi alla formazione degli organi sovrani attraverso l'elezione dei suoi rappresentanti, si nega che con tale atto, esso esprima la propria vo-lontà politica. Ciò è confermato dal fatto che i rappresentanti eletti dal popolo non possono essere ad esso legati né da vincoli giuridici (il mandato obbligato-rio) né da vincoli di fatto (dato che si nega la legittimità dell'organizzazione in partiti); essi sono considerati i cittadini piü capaci, piü meritevoli e piü attivi: perciò spetta ad essi interpretare liberamente sulla base di un mandato fidu ciario, la volontà della nazione e di conseguenza esprimere la volontà politica generale"19.
Per comprendere appieno questa teoria non dobbiamo perdere di vista il maggiore protagonista della rivoluzione: la borghesia mercantile e finanziaria. La borghesia, in quel momento, temeva allo stesso modo i rigurgiti assolutistici come eventuali fughe in avanti da parte dei gia-cobini che si mostravano di idee democratico-radicali. La Nazione, in quanto entità astratta, non poteva agire direttamente, di conseguenza doveva esercitare i suoi poteri per delegazione. In questo modo si spa-zzano via gli istituti di democrazia diretta (oltre ad evitare il suffragio universale) e si organizza un governo rappresentativo. L'elettorato non è un diritto ma è solo una funzione pubblica perché nessun cittadino puó invocare una sua piccola porzione di sovranità, è un dovere di cui la Nazione investe gli individui giudicati idonei ad esercitarla. Se il parlamentare doveva rappresentare l'intera Nazione, egli non do-veva curare gli interessi particolari del suo collegio elettorale, bensi l'interesse nazionale e, di conseguenza, non doveva essere vincolato da istruzioni ricevute dagli elettori20.
Un aspetto costituzionale siciliano importante, peculiare del sistema inglese post rivoluzionario - sistema che si evolve verso la "monarchia costituzionale" - è contenuto nell'art. 1 del Capo XVI, Titolo I, il cui sig-nificato giuridico puó essere desunto dalla lettura dell'art. 18 del Titolo II "Potere Esecutivo", Capo I. Al principio della irresponsabilità regia (art. 18) si contrappone il principio dell'irresponsabilità delle camere (artt. 1 e 3, Capo XVI, Titolo I): per il parlamento l' irresponsabilità si concreta nel principio della insindacabilità degli atti compiuti dalle ca-mere al loro interno, "interna corporis". Questi due principi costituzio-nali apparentemente contraddicono la mia impostazione: se il sistema costituzionale siciliano è riconducibile e qualificabile come sistema a "monarchia limitata", dove appunto il potere di indirizzo político spetta al sovrano e il parlamento agisce come "limite" al potere regio, non si comprende allora la portata dei due principi costituzionali tipici di una "monarchia costituzionale", dove, invece, il parlamento diventa il rappresentante della nazione ed interviene in modo concreto nella determinazione dell'indirizzo politico.
La risposta la troviamo leggendo il testo costituzionale e volgendo lo sguardo ai corpi costituzionali ed alle vicende storiche. Per la Costi-tuzione siciliana del 1812 il rappresentante della Nazione presso le potenze straniere era il re (Titolo II, Potere Esecutivo, Capo I, art. 1) e il parlamento sembra organizzato ancora secondo il principio della rappresentanza per interessi (l'art. 10 del Capo V aggiunge: "nessuno potrà avere nella camera de' comuni piú di una procura o di un voto, e niun membro della medesima potrà sostituire o trasferire ad altri la procura fattagli dai suoi costituenti"), anche se non mancano nel testo richiami "formali" al principio di una rappresentanza generale. In che modo il parlamento controlla l'esercizio della funzione di indirizzo politico? Sono due gli elementi su cui si basa tale potere: uno è dato dall'affermazione del principio dell'irresponsabilità regia, che implica la piena responsabilità dei ministri del re per gli atti da questo com-piuti, l'altro è dato dal principio dell'irresponsabilità delle camere (nel sistema inglese, l'inserimento nell'Act of Settlement della norma volta a garantire una rapida e precisa individuazione della responsabilità dei consiglieri del re serviva a garantire l'uso dell'impeachment nei loro confronti; a questa disposizione era collegata quella che impediva al re di esonerare dalla responsabilità i propri consiglieri e quindi osta-colare la procedura parlamentare di impeachment).
Nella Costituzione siciliana questo principio è contenuto nell'art. 5, 18 e 19 del Titolo II, "Potere Esecutivo", Capo I. Tuttavia, non si vede in modo chiaro questo disegno politico, essa contiene si alcuni di questi importanti istituti costituzionali che provengono dall'esperienza inglese, ma l'architettura costituzionale, gli attori e le vicende non con-sentono di poter affermare con certezza che si sarebbe manifestata l'influenza (piú o meno penetrante) del parlamento sull'indirizzo politico a tal punto che i ministri del re avrebbero dovuto tendenzialmente riscuotere la fiducia del parlamento e manifestare l'orientamento politico espresso dalle camere (nel caso inglese, invece, gli istituti costi-tuzionali inglesi moderni rappresentavano la conclusione di una lunga vicenda costituzionale e di conflitti che avevano visto protagonisti i baroni e i sovrani).
Dal testo costituzionale è sicuramente evidenziabile una distribuzione di funzioni tra i due poteri, il re e il parlamento, al primo dei quali era attribuita la funzione esecutiva e al secondo quella legislativa. Questo schema implicava la separazione dei poteri e l'influenza di un potere sulla funzione dell'altro: il re con la "sanzione" sulla legge delle camere e queste con l'impeachment contro i ministri del re. A nessun potere, singolarmente considerato, è attribuita la sovranità che, invece, viene trasferita al "Re in Parlamento" (King in Parliament)21. Come è evidente, una parte della Costituzione - da intendere ovviamente in senso formale - appare piú evoluta, e farebbe pensare ad una monarchia costituzionale, per il resto credo che si possa parlare di "monarchia limitata" (la preminenza, in ordine all'indirizzo politico, è attribuita al sovrano - basta leggere per intero il Titolo II - ed il parlamento agisce solo come "limite" al potere re).
Resta difficile immaginare un'evoluzione della meccanica costituzio-nale siciliana che avrebbe condotto alla trasformazione della respon-sabilità giuridica (impeachment) in responsabilità politica. Ancora piú difficile pensare che si fosse passati dall'accusa all'atto di sfiducia contro i ministri del governo che ha come conseguenza la loro sostituzio-ne. Il parlamento, secondo la Costituzione siciliana, avrebbe avuto una breve durata e questo non avrebbe consentito alle camere di seguire in modo organico e non episodico lo svolgimento dell'indirizzo politico generale (in Inghilterra, invece, il ricordato Septennial Act del 1715 prolungava da tre a sette anni la durata del parlamento e ció ha consentito lentamente la formazione di quegli elementi che hanno poi determinato l'affermazione della monarchia parlamentare, tra cui il ra-fforzamento del ruolo del Cabinet; nei primi dell'Ottocento si era già formata la consuetudine secondo cui il re nominava alla carica di ministro persone che godevano della fiducia delle camere, cioè ministri graditi alla maggioranza parlamentare).
Per concludere, sono essenzialmente due gli aspetti costituzionali assenti che mi consentono di considerare il contesto e l'esperienza siciliana del 1812 non sempre allineata a quella inglese post rivoluzionaria: l'istituto della rappresentanza politica non è facilmente individuabi-le (pur non conducendo ad una antinomia normativa, nel testo peró emergono residui giuridici sulla rappresentanza per interessi), il parlamento non rappresenta la Nazione e non avrebbe potuto inter-venire in modo concreto (non senza difficoltà) nella determinazione dell'indirizzo politico del Gabinetto.
Nei sistemi liberali il parlamentare doveva rappresentare l'intera Na-zione, egli non doveva curare gli interessi particolari del suo collegio elettorale, bensi l'interesse nazionale e, di conseguenza, non doveva essere vincolato da istruzioni ricevute dagli elettori. In Sicilia la camera dei Comuni, invece, era formata dai rappresentanti delle popolazioni di tutto il regno (art. 1, Titolo I, Capo V), ma l'art. 10 (del Capo V) aggiunge: "nessuno potrà avere nella camera de' comuni piú di una procura o di un voto, e niun membro della medesima potrà sostituire o trasferire ad altri la procura fattagli dai suoi costituenti". Sembra di poter dire che si tratti di una rappresentanza generale in senso formale, ma in sostanza temperata da una piú "pratica" rappresentanza per interessi.
Vediamo altri punti della Costituzione siciliana. L'iniziativa legislativa era riservata al parlamento ed il sovrano non poteva che approvare o respingere le proposte di legge. Il parlamento si componeva di due camere: la Camera dei Pari (formata dai baroni e loro discendenti "e da tutti quegli ecclesiastici, e loro successori, che attualmente han diritto di sedere e votare in parlamento"22) e la Camera dei Comuni (formata dai rappresentanti elettivi delle terre demaniali e baronali; il regno sa-rebbe stato diviso in 23 distretti). I rappresentanti sarebbero stati elet-ti da cittadini in possesso di una "rendita netta e vitalizia di almeno once diciotto annuali, sia che provenga da diretto o utile dominio, o da qualunque censo, o rendita"23 (i rappresentanti delle due università erano eletti dal rettore, dal corpo dei professori e dottori collegiali). Il voto era pubblico ed orale: "Ciascun elettore dovrà dare il suo voto personalmente, e per procura ad alta voce in mano del rispettivo maestro notaro, e alla presenza del capitano e suoi uffiziali, che ne faranno registro [...]"24.
Il re poteva convocare e sciogliere a piacimento il parlamento, salvo l'obbligo di convocarlo almeno una volta l'anno: "Sarà unicamente di-ritto di S.M. quello di convocare, sciogliere e prorogare il parlamento. Il re sarà tenuto a convocarlo in ogni anno [...] Nondimeno il re dovrà convocare, prorogare e sciogliere il Parlamento sempre inteso il parere del suo consiglio privato [...]"25.
I presidenti delle due camere dirigevano le discussioni assembleari e disponevano del voto decisivo in caso di parità di suffragi. Il presidente della camera dei Pari era eletto dal re fra i membri della stessa camera, mentre il presidente della camera dei Comuni era eletto dalla stessa camera (ed approvato dal re).
L'art. 35 del Titolo III, Capo I recepisce il principio dell'habeas corpus in omaggio al richiamato sistema inglese (si riferiva ad un "writ" che avrebbe consentito alla magistratura di controllare prima di tutto la legittimità dell'ordine di arresto di una persona e di sottrarre il pri-gioniero dall'arbitrio signorile). Anche in questo caso non mancano le contraddizioni rispetto al sistema inglese: lo stesso articolo rimandan-do ad un nuovo codice introduce principi tipici 26dell'esperienza codi-cistica francese.
L'articolo 1 del Capo II testualmente recita: "Il solo parlamento avrà il potere di mettere nuove tasse di ogni specie, e di alterare quelle già stabilite. Tutti i sussidii non avranno che la durata di un anno. Tali de-terminazioni peró del parlamento saranno nulle, come già detto delle leggi, se non saranno avvalorate dalla real sanzione"27.
Un aspetto non secondario riguarda l'abolizione della feudalità. La feudalità era abolita, ma tutti i possedimenti feudali (con il termine feudo si indicavano i beni ricevuti in "concessione regia" dietro pres-tazione di un giuramento di fedeltà, il c.d. "omaggio feudale) si tras-formavano in "piena proprietà" o in proprietà allodiale (nel medioevo l'allodio era utilizzato per indicare i beni e le terre che si possedevano in piena proprietà in opposizione a feudo o beneficio). Dunque, nella Costituzione fu inserito un grande omaggio: i baroni siciliani da feu-datari diventavano "pieni proprietari" di beni e terreni prima ricevuti ed amministrati in regime di "concessione".
A vantaggio, inoltre, dei feudatari (ora "pieni proprietari") vennero aboliti gli antichi usi civici. Sono diritti perpetui spettanti ai membri di una collettività (comune, associazione) come tali, su beni appartenenti al demanio, o a un comune, o a un privato. Sono di origine antichis-sima, e si collegano all'istituto della proprietà collettiva sulla terra (in alcune regioni risalgono all'età preromana, in altre sono stati introdotti dai popoli germanici). Il contenuto di questi diritti è assai vario: facol-tà di pascolo, di alpeggio, di far legna, di raccoglier fronde o erba, di spigolare. Diritti vitali nel primo Medioevo, non furono scalzati dal feudalesimo. Nel corso dei secoli le monarchie reagirono contro le usurpazioni dei signori feudali in danno alle collettività (richiamando il principio che ognuno debba poter soddisfare le piü elementari neces-sità della vita). Con l'affermarsi dei principi economici del liberalismo si vide negli usi civici un impaccio alla libera disponibilità degli immo-bili ed alla libera iniziativa economica dei proprietari.
La rivoluzione francese, accogliendo le istanze anti-feudali ed indivi-dualistiche, segna una cesura con il passato. Con il decreto del 4 agosto 1789 di abolizione dei privilegi si rendeva possibile, almeno sul piano formale, il primo e fondamentale atto di smantellamento dell'Ancien Régime, premessa per giungere alla creazione del "soggetto unico del diritto"28. L'articolo 10 del "décret" 4 agosto 1789 recita: "Poiché una costituzione nazionale e la libertà pubblica sono piü vantaggiose per le province dei privilegi di cui alcune di queste godevano, e il cui sacrificio è necessario per l'unione profonda di tutte le parti del dominio, si dichiara che tutti i privilegi particolari delle province, principati, regio-ni, cantoni, città e comunità di abitanti, sia pecuniari che di qualunque altra natura, sono aboliti senza possibilità di ritorno, e confluiranno nel diritto comune di tutti i francesi"29.
Questo articolo contiene il presupposto per l'abolizione tacita degli usi civici e dovremmo leggerlo alla luce di due articoli della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino dell'Assemblea Nazionale Francese (26 agosto 1789), piü precisamente gli articoli 2 e 17, che stabiliscono il carattere sacro e naturale della proprietà e la sua inviolabilità: "Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti imprescritti-bili dell'uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione" (art. 2); "La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno puó esserne privato, salvo quando la ne-cessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in maniera evidente, e previa una giusta indennità" (art. 17)30.
Il 17 giugno 1791 l'Assemblea nazionale vota la legge che prendeva il nome del deputato Isaac Le Chapelier, che l'aveva redatta e proposta. Con questa legge31 furono dichiarate sciolte e non piü ricostituibili le associazioni dei maestri artigiani e in genere di chi esercitava una stessa professione (corporazioni), una delle piü radicate istituzioni dell'Europa di antico regime. Alla base di questo provvedimento vi erano motivazioni economico-politiche, ma in ogni caso ebbe l'effetto di lasciare i lavoratori indifesi di fronte al potere di fatto esercitato dai datori di lavoro. Si rafforza il carattere individualistico del sistema economico con l'eliminazione dei corpi intermedi e, dal punto di vista giuridico, la società si presenta come formata da singoli individui formalmente eguali davanti alla legge.
Non fu però semplice sbarazzarsi degli usi civici. L'Assemblea costituente incontrò, infatti, l'opposizione di molte comunità. Con il decreto 28 settembre-6 ottobre 179132(Code rural) si mantennero in vita gran parte degli usi civici tradizionali. La sezione IV (Des troupeaux, des clotures, du parcours et de la vaine pâture) introduceva numerose de-roghe che in pratica vanificavano le disposizioni che nelle sezioni I e II annunciavano l'abolizione degli usi civici. Anche il decreto del 10 giug-no 179333 (Convenzione Nazionale), che disciplinava la divisione dei beni comuni - escluse le foreste - in pratica ebbe scarsa applicazione34.
Il codice civile del 1804 esalta il diritto di proprietà, ritenuto sacro ed inviolabile e condanna le consuetudini tradizionali. Il codice riorganiz-zava la disciplina del diritto civile intorno ad alcuni principi cardine, caratteristici di una società nella quale lo scambio era ormai divenuto il rapporto sociale fondamentale. Dal punto di vista giuridico-econo-mico la rivendicazione dell'assolutezza dei poteri del proprietario era rivolta contro i "residui" giuridici feudali e corporativi che gravavano di vincoli e di oneri la proprietà e, di conseguenza, impedivano una utilizzazione rapida ed efficiente delle risorse economiche. Dal punto di vista politico, invece, l'intangibilità della proprietà privata da parte dei pubblici poteri garantiva i cittadini-proprietari dall'eventuale arbitrio dei sovrani35.
L'articolo 544 del Code Napoléon recita: "La proprietà è il diritto di go-dere e di disporre delle sue cose nella maniera la piü assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi e dai regolamenti"36. Gli usi civici erano retaggio di un'economia arretrata e pre-capitalistica, men-tre si voleva una proprietà libera dai "complicati" gravami, funzionale allo sviluppo dell'economia capitalistica. Gli usi civici, invece, fotogra-favano una società rurale, immobile, legata ancora all'auto-consumo.
Il codice civile francese, pur abrogando tacitamente il Code rural del 1791, non predispone una disciplina sostitutiva, ma si limita a stabilire all'art. 542: "I beni comunali sono quelli, alla proprietà o al prodotto dei quali gli abitanti di uno o piü comuni hanno acquistato un diritto"37. C'è però un'altra norma nel Code Napoléon che, nel disciplinare le ser-vitü prediali, ci riporta alla intricata normativa sugli usi civici. L'art. 648 recita: "Il proprietario che vuol chiudere il suo fondo perde il di-ritto di calpestio e di pascolo nell'altrui fondo, dopo la raccolta delle messi in proporzione del terreno che ha sottratto all'uso comune"38. Nel commento si legge: "Decidendo che ciascuno possa sottrarsi al passaggio ed alla pastura errante, la legge suppone un semplice uso locale: se il diritto di pascolo risultasse da una convenzione, sarebbe una vera servitü nella quale non potrebbe sottrarsi con la chiusura del fondo [...] La legge del 28 settembre 1791 non ha distrutto gli usi locali, regolando il modo e l'esercizio del diritto di passaggio."39.
Nel 1808 fu realizzato un progetto di riforma del Code rural del 1791, ma il testo non fu mai emanato. Il contenuto della prospettata riforma condannava ogni ostacolo al diritto di godimento e di disposizione della proprietà (c.d. "pienezza" del diritto di proprietà).
Ritorniamo alla Costituzione siciliana del 1812. Gli usi civici non sca-turivano da una legge formale ma si radicavano nella prassi collettiva. Invece la Costituzione fissa come regola generale l'abolizione senza in-dennità, "saranno compensati però quegli usi civici, che provengono da un condominio o diritto di proprietà, da una convenzione corrispettiva tra il barone ed il comune, o singoli, e finalmente da un giudicato"40. Come dicevo prima, un vero e proprio "omaggio" fatto ai baroni che, per le modalità regolative, non aveva precedenti negli altri Stati italiani e in Europa: gli usi per essere liquidati sarebbero dovuti risultare da atto scritto, condizione quasi impossibile, in quanto gli antichi usi civici pre-sentavano un carattere prettamente consuetudinario e localistico.
Si è tentato, quindi, di abolire l'insieme dei diritti consuetudinari spettanti a vario titolo alle comunità siciliane, in nome della "pienez-za" del diritto di proprietà, "pienezza" auspicata e sostenuta dalle dot-trine individualistiche liberali, che in Francia, come abbiamo visto, codificando il diritto civile si tentava - tentativo non del tutto riuscito - di liquidare gli usi civici ormai considerati superati.
Le condizioni socio-economiche dei siciliani e del sistema economico piü in generale all'inizio Ottocento, però, sono ancora di un'economia arretrata ed essenzialmente pre-capitalistica41. Liberando le terre (prima detenute dai baroni in regime di concessione) dai "lacci" e dai "pesi" che gravavano su di esse (usi civici), non si liberavano risorse economiche destinate ad essere sfruttate da "dinamici" imprenditori agricoli e quindi favorire lo sviluppo economico. Niente di tutto ciò, si è semplicemente trasformato con legge costituzionale il titolo giuridico dei feudi: i baroni siciliani da semplici feudatari diventavano "pieni" proprietari delle terre che prima avevano ricevuto in concessione regia o signorile (non possono passare in secondo piano, inoltre, gli inte-ressi commerciali di numerose famiglie inglesi - banchieri, mercanti, ecc. - presenti nell'isola42). Dunque, non c'è la borghesia che sfrutta le terre con tecniche moderne nell'intento individualistico di aumentarne la produttività e, di conseguenza, incrementare il traffico economico-giuridico. Niente di tutto ciò, i nobili siciliani coltivavano o meglio facevano coltivare i terreni prevalentemente con tecniche antiche ed erano lontani dalla mentalità economico-produttiva43 della borghesia inglese, che in Sicilia non si era ancora affermata e comunque non eser-citava, a differenza di quella inglese, il controllo sull'indirizzo politico generale attraverso la maggioranza parlamentare.
Questa disposizione di rango costituzionale (liquidazione dei diritti consuetudinari) divergeva, tra l'altro, dalla disciplina vigente nel reg-no di Napoli con le leggi eversive della feudalità. Con la riconquis-ta francese del regno di Napoli, Giuseppe Bonaparte con la legge 2 agosto 1806, n. 130 aboliva la feudalità il cui art. 15 recitava: "I demani che appartenevano agli aboliti feudi, restano agli attuali possessori. Le popolazioni conserveranno ugualmente gli usi civici, e tutti i diritti, che attualmente posseggono su dei medesimi, fino a quando di det-ti demani non ne sarà con altra nostra legge determinata e regolata la divisione proporzionata al demanio e diritto rispettivi. Intanto es-pressamente rimane proibita qualunque novità di fatto"44 (seguirono altre leggi: legge 1 settembre 1806, R.D. 8 giugno 1807, R.D. 3 dicembre 1808, legge 23 ottobre 1809 e la legge 10 marzo 1810, n. 588-589).
Le leggi "giuseppine" conferivano ai Comuni il diritto di agire in giu-dizio contro i baroni al fine di ottenere il riconoscimento dei diritti di uso civico a prescindere dall'esistenza di atti scritti che ne dichiaravano l'esistenza.
Anche la norma costituzionale del Titolo I, Capo III sull'inalienabilità dei beni ecclesiastici probabilmente ci riconduce ad un accordo tra i ba-roni e le gerarchie ecclesiastiche penalizzando gli interessi della borg-hesia che, in realtà non ebbe un ruolo importante nell'elaborazione della costituzione. Si può concludere sostenendo che due sono gli attori costituzionali che avrebbero tratto vantaggio dalle nuove disposizioni, gli ex feudatari (i signori territoriali) e la Chiesa Cattolica, i contadi-ni, invece, venivano spogliati dai loro diritti sugli ex feudi, terreni ora trasformati con norma di rango costituzionale in regime di piena pro-prietà, e la piccola e media borghesia privata del mercato fondiario dei beni ecclesiastici.