SOMMARIO: I. I fatti di causa. II. La rinegoziazione del contratto. III. La fonte dell'obbligo di rinegoziare. IV. Pandemia e sopravvenienza contrattuale. V. Le conseguenze della mancata rinegoziazione. VI. La rinegoziazione nella giurisprudenza. Conclusioni. Referenze.
Si ritiene possibile modificare, sebbene per il momento solo in sede cautelare, i termini di un contratto di locazione se il conduttore ha visto la propria attività ridotta a causa delle misure emergenziali (COVID-19) disponendo la riduzione dei canoni di locazione del 40% per i mesi di aprile e maggio 2020 e del 20% per i mesi da giugno a marzo 2021, nonché la sospensione della garanzia fideiussoria fino ad un'esposizione debitoria di 30.000 euro.
Omissis. - Secondo le prospettazioni della ricorrente, invero, la resistente non avrebbe ottemperato all'obbligo, derivante dalla clausola generale di buona fede e correttezza, di ricontrattare le condizioni economiche del contratto di locazione a seguito delle sopravvenienze legate all'insorgere della pandemia per COVID-19. Orbene, questo giudice non ignora che in base al testo normativo dell'art. 1467, comma 3, c.c. e all'orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte sul punto, la rettifica delle condizioni contrattuali "squilibrate" può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l'azione di risoluzione, in quanto il contraente a carico del quale si verifica l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione non può pretendere che l'altro contraente accetti l'adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite. Tuttavia deve ritenersi che lo strumento della risoluzione giudiziale del contratto "squilibrato" volta alla cancellazione del contratto, nella misura in cui quest'ultimo non contenga alcuna clausola di rinegoziazione derogatrice della disciplina legale, soprattutto per i contratti commerciali a lungo termine, possa in alcuni casi non essere opportuna e non rispondente all'interesse della stessa parte che, subendo l'aggravamento della propria posizione contrattuale, è legittimata solo a chiedere la risoluzione del contratto "squilibrato" e non anche la sua conservazione con equa rettifica delle condizioni contrattuali "squilibrate". Certamente la crisi economica dipesa dalla pandemia COVID e la chiusura forzata delle attività commerciali - ed in particolare di quelle legate al settore della ristorazione - devono qualificarsi quale sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale; invero, nel caso delle locazioni commerciali il contratto è stato stipulato "sul presupposto" di un impiego dell'immobile per l'effettivo svolgimento di attività produttiva, e segnatamente nel caso di specie per lo svolgimento dell'attività di ristorazione. Ciò posto, si ritiene che pur in mancanza di clausole di rinegoziazione, i contratti a lungo termine, in applicazione dell'antico brocardo "rebus sic stantibus", debbano continuare ad essere rispettati ed applicati dai contraenti sino a quando rimangono intatti le condizioni ed i presupposti di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio. Al contrario, qualora si ravvisi una sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale, quale quella determinata dalla pandemia del COVID-19, la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi della esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, in base al dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto (art. 1375 c.c.). Orbene, sulla questione dell'ammissibilità di un'azione di riduzione in via equitativa dei canoni di locazione in ragione del mancato rispetto dei canoni di buona fede e correttezza, proposta in via principale senza previa domanda di risoluzione per sopravvenuta eccessiva onerosità, si rileva come secondo un diffuso orientamento dottrinale (cfr., ex aliis, V. Roppo, Il contratto, 2011, Giuffrè) condiviso da questo giudice, la buona fede può essere utilizzata anche con funzione integrativa cogente nei casi in cui si verifichino dei fattori sopravvenuti ed imprevedibili non presi in considerazione dalle parti al momento della stipulazione del rapporto, che sospingano lo squilibrio negoziale oltre l'alea normale del contratto. Nello specifico, secondo il citato orientamento, le suddette circostanze vengono a verificarsi nel caso dei cosiddetti contratti relazionali implicanti un rapporto continuativo tra le parti e che mal tollerano la risoluzione del contratto. All'interno della suddetta categoria sembrano poter rientrare anche i contratti di locazione di beni immobili per l'esercizio di attività produttive. In tal caso, infatti, l'eventuale risoluzione del contratto per eccessiva sopravvenuta onerosità comporterebbe inevitabilmente la perdita dell'avviamento per l'impresa colpita dall'eccessiva onerosità e la conseguente cessazione dell'attività economica. In siffatte ipotesi sorge, pertanto, in base alla clausola generale di buona fede e correttezza, un obbligo delle parti di contrattare al fine di addivenire ad un nuovo accordo volto a riportare in equilibrio il contratto entro i limiti dell'alea normale del contratto. La clausola generale di buona fede e correttezza, invero, ha la funzione di rendere flessibile l'ordinamento, consentendo la tutela di fattispecie non contemplate dal legislatore. Si evidenzia peraltro che, come è stato evidenziato dalla resistente, sono state previste a livello statale una serie di misure volte a ridurre l'impatto finanziario della pandemia nelle attività produttive. Tra le suddette misure rileva in particolare per il caso che qui ci occupa la previsione di cui all'art. 65 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 convertito in legge n. 27/2020 di un credito di imposta del 60% sui canoni di locazione pagati nel marzo 2020. Nonostante lo sforzo fatto dal legislatore, le suddette misure non sembrano tuttavia essere sufficienti, almeno nel caso di specie, a riportare in equilibrio il contratto entro la sua normale alea atteso che nella fattispecie a fronte del recupero di poco più della metà del credito di imposta per un solo mese si sono verificate delle perdite nette dei ricavi per i mesi di marzo, aprile, maggio di euro 136.555,11 rispetto al corrispondente periodo di gestione dell'anno precedente. Tanto rilevato, anche in presenza dell'intervento generale del legislatore per fare fronte alla crisi economica causata dal COVID-19, deve ritenersi doveroso in tale ipotesi fare ricorso alla clausola generale di buona fede e di solidarietà sancito dall'art. 2 della Carta costituzionale al fine di riportare il contratto entro i limiti dell'alea normale del contatto. In tali situazioni non sembra possa dubitarsi in merito all'obbligo delle parti di addivenire a nuove trattative al fine di riportare l'equilibrio negoziale entro l'alea normale del contratto. A tal punto sembra prima facie essere stato violato da parte della resistente il canone di buona fede in senso oggettivo. Quest'ultima ha infatti dedotto di essersi resa disponibile a ridurre del 30 per cento l'importo dei canoni di locazione per i mesi di marzo, aprile e maggio 2020, impegnandosi a non escutere la fideiussione sino a quando la situazione debitoria sarà inferiore al 30.000 euro. Tali asserzioni sembrano tuttavia sfornite di un adeguato impianto probatorio a sostegno. In particolare, le dichiarazioni di disponibilità circa la volontà di non voler escutere la fideiussione e di ridurre del 30 per cento l'importo dei canoni sembrano inoltre essere effettuate per la prima volta dal difensore della resistente in questa sede in assenza di idonea procura per disporre in questo giudizio della res sostanziale di cui si controverte. Pertanto, in ragione della mancata ottemperanza della parte resistente ai doveri di contrattazione derivanti dai principi di buona fede e solidarietà, sembra necessario fare ricorso alla buona fede integrativa per riportare in equilibrio il contratto nei limiti dell'alea negoziale normale, disponendo la riduzione del canone di locazione del 40% per i mesi di aprile e maggio 2020 e del 20% per i mesi da giugno 2020 a marzo 2021; si rileva al riguardo che, anche dopo la riapertura dell'esercizio commerciale, l'accesso della clientela è contingentato per ragioni di sicurezza sanitaria. Si dispone altresì la sospensione della fideiussione in oggetto fino ad una esposizione debitoria del conduttore di 30.000 euro. - Omissis.
Il COVID-19 infetta la sanctity of contract e la giurisprudenza ricorre al vaccino della rinegoziazione
I. I fatti di causa
La fattispecie sulla quale si è pronunciato il giudice romano è semplice e riguarda un contratto di locazione (ad uso commerciale) di un immobile adibito a ristorante. Il contratto era stato stipulato il 10 gennaio 2017 e prevedeva il pagamento di un canone annuo di 96.000 euro, garantito da una fideiussione bancaria per un importo di 72.000 euro, successivamente ridotti a 42.000 euro.
Come noto, la pandemia legata al covro ha spinto il governo italiano al lockdown e alla chiusura di esercizi commerciali e dei locali di ristorazione per circa due mesi. Il conduttore si è venuto così a trovare nell'impossibilità di proseguire la sua attività e, conseguentemente, di pagare il canone di locazione concordato e ne ha pertanto chiesto la riduzione al locatore. Le parti non si accordavano e il conduttore si rivolgeva al tribunale chiedendo che fosse il giudice a procedere alla rinegoziazione. La richiesta, accolta dal Tribunale di Roma, porta alla decisione in commento nella quale si afferma che al generale obbligo di rispettare il principio di buona fede nell'esecuzione del contratto consegue il dovere di rinegoziare il contratto che si riveli squilibrato durante il suo adempimento e la cui violazione apre le porte alla revisione giudiziale.
La sentenza dimostra una rinata vitalità del dialogo tra formante dottrinale e giurisprudenziale: la miglior dottrina, infatti, in questi mesi, ha in più occasioni auspicato che la giurisprudenza, anche in assenza di un'espressa previsione legislativa, introducesse, in esecuzione del generale principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, un generale obbligo di rinegoziare i contratti il cui equilibrio originario risulti sovvertito a causa della pandemia1.
II. La rinegoziazione del contratto
Negli ultimi decenni, in Europa, si è diffusa l'idea per cui quale il contratto che sia stato travolto da una sopravvenienza imprevedibile, che crea uno squilibrio nel si-nallagma originario e il cui rischio non possa essere imputato a nessuna delle parti, debba essere rinegoziato. Evidenze di una tale tendenza generale si ritrovano non soltanto in importanti opere di soft law quali i PECL o il DCFR, ma anche nei testi riformati del BGB (§ 313) e del Code civil (art. 1195). Proprio il § 313 BGB e l'art. 1195 c.c. fr. sono indicati, da molti autori, come gli antidoti agli effetti della pandemia sul contratto in tutti quei casi in cui i provvedimenti adottati dall'autorità per il contenimento del contagio abbiano determinato il sopravvenire di un significativo squilibrio tra le prestazioni delle parti2.
Anche in Italia si è proposto di riformare il codice civile, introducendo una disposizione generale in forza della quale, di fronte alle sopravvenienze eccezionali, il contratto deve essere rinegoziato3, e molti degli interventi adottati dal Governo per consentire di fronteggiare gli effetti della pandemia sui contratti hanno fatto ampio ricorso all'idea della rimodulazione degli impegni negoziati per evitare la risoluzione del rapporto4.
Al momento, però, nel codice civile italiano manca una norma che imponga la rinegoziazione, ci si deve pertanto chiedere se l'obbligo di rinegoziare possa essere introdotto, de iure condendo, per consentire di far fronte ai problemi conseguenti agli effetti della pandemia sul contratto. Come la sentenza in commento dimostra la risposta è positiva: grazie alla clausola generale di buona fede, infatti, è possibile ipotizzare un rimedio generale che imponga alle parti la rinegoziazione, anche in assenza di una norma specifica. In proposito una parte della dottrina ha osservato che, nel nostro ordinamento, in diverse ipotesi, le parti danno già luogo a una nuova stipulazione del contratto, si tratta della ripetizione, della rinnovazione o della rinegoziazione: queste fattispecie possono essere ricondotte all'interno di una sola categoria dogmatica, ma, ciononostante, la rinegoziazione non potrebbe aspirare alla dignità di istituto giuridico, posta l'inesistenza di una disciplina definita e costante e l'utilità soltanto descrittiva della figura5.
Altri autori, invece, in modo più condivisibile, offrono una ricostruzione diametralmente opposta, ritenendo la rinegoziazione una categoria giuridica ben delimitata, che trova la propria legittimazione nelle clausole generali del diritto e che appare uno strumento raccomandabile per tutelare gli interessi dei contraenti6. Del resto, nel nostro ordinamento, se è vero che non esiste una regola generale che ammette la rinegoziazione, è altrettanto vero che essa non è neppure esplicitamente vietata.
Lo stesso principio per cui pacta sunt servanda, che spesso viene invocato per negare cittadinanza al rimedio manutentivo, può essere letto, invece, come una legittimazione della rinegoziazione. Rinegoziare un contratto che in corso di esecuzione si rivela squilibrato rispetto a quanto pattuito inizialmente, infatti, consente di mantenere il sinallagma iniziale del patto concluso tra le parti; il divieto di rinegoziare, invece, conserva solo formalmente il contratto, impedendo che l'equilibrio inizialmente divisato dalle parti venga preservato e adeguato alle nuove circostanze7.
L'analisi economica del diritto individua i contatti soggetti a obbligo di rinegoziazione nei contratti di durata e nei contratti a efficacia differita che si caratterizzano per essere "incompleti"8, ossia contratti il cui contenuto è rimasto, con riguardo ad alcuni elementi, indeterminato o indeterminabile. Con riguardo a tali rapporti, l'analisi economica suggerisce di adottare strumenti correttivi che garantiscano una flessibilità al rapporto contrattuale, nell'intento di preservarne la stabilità nel tempo. Per prevenire una situazione problematica nulla vieta alle parti di pattuire una clausola di revisione che imponga la rinegoziazione al verificarsi di una sopravvenienza; tuttavia, un rimedio generale che preveda l'obbligo di rinegoziare, anche in assenza di tali clausole, significa consentire al contratto di conservare l'equilibrio originario tra le prestazioni, evitando che si verifichino iniquità.
III. La fonte dell'obbligo di rinegoziare
Con riferimento all'ordinamento italiano, l'obbligo di rinegoziazione trova la sua fonte nei principi generali di buona fede ed equità nell'adempimento dell'obbligazione contrattuale desumibili dagli artt. 1175, 1374 e 1375 c.c.9, oltre che nell'interpretazione secondo buona fede del contratto a norma dell'art. 1366 c.c. Il rispetto di tali regole impone ai contraenti di riequilibrare le loro obbligazioni in via attuativa e conservativa della volontà originaria10.
Si potrebbe obiettare che l'introduzione di un obbligo di rinegoziazione in assenza di un dato normativo espresso, ma in esecuzione di clausole generali, avrebbe una funzione eversiva rispetto alle norme codificate, posto che, nel nostro ordinamento, l'obbligo di rinegoziazione è formalmente previsto soltanto in casi eccezionali e che quindi l'introduzione di un tale dovere in via generale e ad opera della giurisprudenza violerebbe il dovere del giudice di applicare la legge esistente, senza creare nuove regole non espressamente previste dal legislatore al quale spetta, in ultima istanza, decidere quali regole introdurre nell'ordinamento. L'assenza di un'espressa previsione normativa che contempli la rinegoziazione non esclude, però, che a tale istituto possa essere comunque riconosciuta legittimità facendo ricorso alle clausole generali, le quali - se è vero che hanno una funzione antipositivistica e, in questo senso, possono essere distinte dalle regole11 - possiedono, tuttavia, un importante ruolo nel garantire l'armonia delle soluzioni offerte dall'ordinamento giuridico. Appare innegabile, quindi, l'opportunità di ricorrere ai principi generali nell'interpretazione delle regole e degli obblighi delle parti e, in quest'ottica, utilizzare la buona fede per fondare il dovere di rinegoziare e l'equità per determinare il contenuto di tale obbligo12; in altre parole, più che di un utilizzo eversivo dei principi generali per sovvertire il diritto positivo, sembra opportuno parlare, in questo caso, di un loro utilizzo in funzione integrativa rispetto alle inefficienze dell'ordinamento.
L'osservanza di un rigido positivismo irrispettoso delle clausole generali (pure esse, peraltro, espresse in norme di diritto positivo) non deve impedire di preservare, durante l'esecuzione del contratto, l'equilibrio tra le prestazioni fissato originariamente dalle parti13. La buona fede, imponendo alla parte avvantaggiata dalla sopravvenienza di rinegoziare il rapporto, riconducendolo al suo equilibrio originario, offre un rimedio conservativo, che obbliga le parti a curare il contratto, apportando le modifiche necessarie a tenerlo in vita, nonostante il mutare delle circostanze; la violazione dell'obbligo di rinegoziare fa sorgere responsabilità per inadempimento in capo al contraente che si rifiuti di riaprire le trattative14.
Appurata l'ammissibilità, nell'ordinamento italiano, di un generale obbligo di rinegoziare, ci si deve domandare se qualunque sopravvenienza dia origine a un tale dovere o se esso sorga soltanto di fronte a sopravvenienze di una certa rilevanza. La risposta alla domanda mi pare offerta dall'art. 1467 c.c., in forza del quale soltanto le sopravvenienze che superano la normale alea contrattuale devono portare alla rinegoziazione. Una diversa soluzione, infatti, non solo creerebbe un'artificiale differenziazione in peius a scapito di chi è vittima di eccessiva onerosità, ma finirebbe per rappresentare un abuso della buona fede, posto che appare eccessivo permettere a qualunque sopravvenienza di essere Vescamotage per riaprire le trattative. Inoltre, se ogni sopravvenienza desse luogo a rinegoziazione, si correrebbe il rischio di paralizzare i contratti di lunga durata o a efficacia differita, posto che qualunque variazione del programma inizialmente divisato, determinando la riapertura delle trattative, ostacolerebbe l'adempimento e la regolare esecuzione del contratto.
La proposta di riforma del codice civile attualmente in discussione è orientata in quest'ultimo senso15; in dottrina16, però, si sono mosse alcune riserve a un tale approccio, che, mantenendosi fedele ai canoni dell'eccezionalità e imprevedibilità previsti dalla disciplina in materia di eccessiva onerosità sopravvenuta, rischierebbe di tradursi in una scarsa applicabilità del rimedio. Le ipotesi più significative di rinegoziazione del contratto, infatti, si verificherebbero quando l'eccessiva onerosità, pur non essendo stata originariamente prevista dalle parti, era da esse astrattamente prevedibile17. Il rischio nel limitare l'operatività del rimedio alle sole sopravvenienze eccezionali e imprevedibili consiste nel comprimere "enormemente l'àmbito applicativo della nuova disciplina, tanto da renderla praticamente inutile"18. La ragione per cui la proposta di riforma prende in esame le sopravvenienze eccezionali e imprevedibili sembra poter essere riconducibile alla volontà di non incidere eccessivamente sull'autonomia privata. Se i contraenti non hanno voluto prendere posizione con riguardo alle sopravvenienze, essi lo hanno deciso con un esercizio della loro autonomia negoziale, concludendo un contratto a lungo termine e vincolandosi alla sua esecuzione. Il loro programma contrattuale, di fronte alle sopravvenienze prevedibili, ha deciso di non prevedere alcun rimedio, lasciando che esse ricadano sul contraente che ne viene colpito. Rispetto a tali sopravvenienze, quindi, sono meno stringenti le ragioni di equità che impongono di rinegoziare il contenuto del rapporto.
IV. Pandemia e sopravvenienza contrattuale
Appurato che l'obbligo di rinegoziare sorge soltanto in caso di sopravvenienze imprevedibili ed eccezionali, ci si deve chiedere se una pandemia quale quella legata al COVID-19 possa integrare una tale sopravvenienza. La risposta appare sicuramente positiva19: una pandemia di dimensioni e portata analoghe a quella che ci sta colpendo in questi mesi costituisce indubbiamente un evento di carattere straordinario ed imprevedibile, idoneo ad integrare gli estremi della sopravvenienza contrattuale.
Nel caso sottoposto al Tribunale di Roma appare degna di considerazione la circostanza che il contratto aveva ad oggetto la locazione di un immobile adibito a ristorante: le attività di ristorazione sono state tra le più colpite dai provvedimenti adottati dall'esecutivo ai fini del contenimento della diffusione dei contagi; come noto, tali provvedimenti hanno imposto un lockdown totale per mesi, con impossibilità per i ristoranti di accogliere clienti e quindi incassare denaro. Anche una volta terminato il lockdown, le attività di ristorazione hanno continuato a essere oggetto di provvedimenti restrittivi, che hanno limitato sensibilmente il numero di avventori che potevano essere ospitati nei locali. In un tale contesto è evidente che le attività ristorative hanno visto pesantemente limitate le loro entrate per cause estranee alla volontà e alle capacità imprenditoriali di chi le gestisce, a fronte di spese fisse rimaste invariate. Di tali circostanze ha tenuto conto il Tribunale di Roma, che ha configurato il dovere di rinegoziare il contratto fondato sulla buona fede in senso oggettivo. Il tribunale è andato oltre, ritenendo che, in mancanza di una rinegoziazione ad opera delle parti, debba fare ingresso la revisione giudiziale del contratto finalizzata a ristabilire l'originario equilibrio, in modo da ripartire su entrambi i contraenti gli effetti pregiudizievoli della sopravvenienza.
Interessante osservare che il giudice abbia modulato gli effetti della pandemia sul contratto riconoscendo una riduzione del canone del 40 % per i mesi di aprile e maggio 2020 e del 20 % per i mesi da giugno 2020 a marzo 2021. Sul punto sarebbe utile capire se il giudice ha valutato equo differenziare i canoni in relazione al periodo di chiusura del locale, ritenendo equa una riformulazione del canone in quella misura, oppure se la rimodulazione sia avvenuta alla luce di una documentata differente riduzione delle entrate nei periodi presi in considerazione. Questo aspetto solleva un duplice problema: il primo è connesso al delicato problema della revisione giudiziale che è quello di scongiurare il rischio di un arbitrio del giudice, il secondo è legato alla difficoltà di adottare provvedimenti che siano efficaci in un momento in cui le circostanze mutano in continuazione e con rapidità.
Con riguardo al primo aspetto, per evitare l'arbitrio del giudice, occorre che l'intervento del giudice sia ancorato ad elementi oggettivi; in un caso come quello in esame, quindi, ove risulti provata una riduzione del giro d'affari pari al 40%, la corrispondente riduzione del canone appare corrispondere ad equità, così come pare equo che esso venga ridotto soltanto del 20% quando le condizioni di mercato implichino un aumento delle entrate, sebbene non ancora ai livelli prepandemici20.
Con riguardo al secondo profilo, invece, emerge un punto di debolezza della rinegoziazione, ossia il pericolo che nuove sopravvenienze modifichino ulteriormente la situazione di fatto, rendendo la rinegoziazione inadeguata. Il provvedimento, infatti, ha riconosciuto una riduzione del 20% del canone fino a marzo 2021, ma appena un mese dopo la sua adozione, il governo italiano sta lentamente ipotizzando un nuovo lockdown, con la conseguente riduzione delle entrate per gli esercizi di ristorazione. È evidente che la nuova situazione di fatto è del tutto assimilabile a quella che si è avuta nel periodo per il quale il Tribunale aveva riconosciuto una riduzione del canone del 40%, il che rende ragionevole ipotizzare che il provvedimento in commento verrà nuovamente modificato.
Le decisioni come quelle del Tribunale di Roma potrebbero essere tacciate di operare in senso unilaterale, favorendo soltanto il conduttore a danno del locatore21. Una tale obiezione, però, non sembra tenere conto del fatto che la prestazione del conduttore è venuta ad essere eccessivamente onerosa per una causa a lui non imputabile e che il diritto, in quanto strumento di bilanciamento degli interessi in gioco, prevede, attraverso i principi generali, che di tali sopravvenienze si debba tenere conto. È indubbio che la riduzione del canone danneggi il locatore, ma non intervenire sul contratto farebbe ricadere solo sul conduttore gli effetti dannosi della pandemia. In questo quadro l'equità impone di suddividere gli effetti dannosi della pandemia su entrambi i contraenti in modo tale che le "legittime pretese del conduttore" pregiudichino "il meno possibile quelle del locatore".
V. Le conseguenze della mancata rinegoziazione
Riconosciuta l'ammissibilità del generico obbligo di rinegoziare, la dottrina si è domandata quali potrebbero essere le conseguenze di una sua eventuale violazione; proprio l'individuazione di un efficiente sistema sanzionatorio per l'inadempimento dell'obbligo di rinegoziare appare uno degli aspetti più delicati e complessi in questa materia.
La risoluzione del contratto per inadempimento (all'obbligo di rinegoziare) non sembra essere raccomandabile, posto che la rinegoziazione servirebbe proprio a scongiurare il ricorso al rimedio risolutorio. Nemmeno il risarcimento del danno appare soddisfacente, considerata la difficoltà che si incontra nell'individuare il danno risarcibile; esso potrebbe forse quantificarsi in rapporto alla mancata continuazione del rapporto in una forma adeguatamente rinegoziata, ma anche in questo caso può essere arduo tradurre tale voce di danno in un concreto quantum risarcitorio.
Un altro rimedio che si potrebbe riconoscere alla parte svantaggiata dalla sopravvenienza sembra essere l'eccezione di inadempimento, che consentirebbe di esercitare una forma di pressione sulla controparte reticente a rinegoziare.
In dottrina si è proposta una soluzione audace, che appare indubbiamente efficace nel garantire effettività all'obbligo di rinegoziare: sanzionare la sua violazione attraverso l'art. 2932 c.c., consentendo alla parte svantaggiata di ricorrere al giudice affinché pronunci una sentenza che introduca nel contratto le modifiche suggerite da buona fede e ragionevolezza22. Tale soluzione è senz'altro seducente, ma occorreche la giurisprudenza sia disponibile a percorrerla anche in assenza di un'espressa previsione legislativa che la imponga23. Inoltre, per un giudice terzo ed estraneo al rapporto può non essere semplice individuare le modifiche necessarie a ristabilire l'equilibrio originario. D'altro canto, la possibilità che il giudice emetta una sentenza che ridetermini il contenuto del contratto appare un utile stimolo affinché i contraenti provvedano essi stessi a rinegoziare seriamente il contratto, evitando che sia un terzo a farlo al posto loro.
L'introduzione, anche in Italia, di una disciplina che regolamenti l'obbligo di rinegoziare il contratto colpito da sopravvenienze appare auspicabile. Una tale previsione, la quale, come si è visto, è già contemplata nel progetto di riforma del codice civile attualmente in discussione, avvicinerebbe l'Italia alle soluzioni adottate negli altri ordinamenti europei e contribuirebbe a rendere più efficiente il nostro diritto contrattuale. L'intervento del legislatore non è però la panacea per tutti i mali, posto che il successo della rinegoziazione non può prescindere dal corretto comportamento delle parti. Ci si deve quindi domandare quali regole possano spingere le parti a rinegoziare in modo efficiente: in prima battuta, si può pensare di introdurre l'obbligo di mediazione come condizione di procedibilità dell'azione nelle ipotesi in cui si intenda agire per la risoluzione del contratto per inadempimento legato a una sopravvenienza. Tale soluzione è stata, ad esempio, adottata recentemente dal legislatore italiano con riguardo ai contratti il cui inadempimento sia imputabile al COVID. È evidente, però, che l'obbligo di mediazione dovrà essere assistito da una sanzione effettiva, che incentivi le parti a rinegoziare in modo serio, e che tale sanzione dovrà essere applicata dal giudice e non restare lettera morta sulla carta.
Un ulteriore incentivo a rinegoziare potrebbe essere rappresentato dall'attribuzione al giudice del potere di ridurre ad equità il contratto. La possibilità che sia il giudice ex officio a intervenire, sebbene possa sollevare alcune perplessità con riguardo alla sua effettiva capacità di ristabilire l'equilibrio contrattuale iniziale, può essere il rimedio più efficace per spingere entrambi i contraenti a riaprire le trattative con serietà, trovando una posizione di equilibrio, senza che sia un terzo, con i relativi profili di aleatorietà, a rideterminare il contenuto del rapporto.
Il Tribunale di Roma, nella sentenza in commento, ha adottato, anche in assenza di un'espressa previsione normativa, quest'ultima soluzione, ritenendo che, di fronte al rifiuto di procedere alla rinegoziazione del contratto, debba essere il giudice a riportare in equilibrio il rapporto nei limiti dell'alea negoziale originaria, disponendo la riduzione del canone di locazione. La scelta del Tribunale capitolino pare condivisibile nell'ottica di favorire la diffusione di una più efficace rinegoziazione delle parti, che potrebbe contribuire a un più celere ed efficiente governo delle sopravvenienze contrattuali legate alla pandemia, evitando di intasare ulteriormente le aule dei tribunali.
VI. La rinegoziazione nella giurisprudenza
Con riferimento al tema della rinegoziazione dobbiamo segnalare un revirement nella giurisprudenza italiana emerso proprio in occasione della recente pandemia conseguente alla diffusione del COVID-19.
Prima della pandemia, infatti, uno degli ostacoli più rilevanti alla rinegoziazione, in assenza di un'apposita previsione normativa, è stato rappresentato proprio dal formante giurisprudenziale24. Nonostante alcune aperture della giurisprudenza arbitrale e di quella di merito25, la teoria dell'obbligo legale di rinegoziare il contratto di fronte alle sopravvenienze, in esecuzione del principio generale di buona fede, non è mai stata accolta dalla giurisprudenza di legittimità26. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, di fronte a una sopravvenienza che turbi l'equilibrio contrattuale ci sono soltanto due alternative: o si può chiedere la risoluzione del contratto, se la sopravvenienza rientra nell'applicazione dell'art. 1467 c.c., o non rimane che restare fedeli al contratto originario (art. 1372 c.c.)27. Ne consegue che la parte svantaggiata dalla sopravvenienza può ottenere lo scioglimento del contratto o la sua eventuale riconduzione ad equità (ma soltanto se richiesta dalla controparte) nelle ipotesi di so pravvenienze tipiche, mentre è tenuta ad eseguire il contratto originario nelle ipotesi di sopravvenienze atipiche28.
La maggioranza delle decisioni delle Corti di merito sono rimaste fedeli a questa prospettazione, affermando che "la clausola generale di correttezza non può essere spinta fino al punto di configurare, a carico di una parte, un obbligo di 'rinegoziazione' dell'assetto contrattuale, essendo ciò contrario al principio generale che governa il diritto dei contratti"29, e dimostrando, in questo modo, la loro resistenza nel riconoscere l'esistenza di un obbligo di rinegoziazione.
La situazione è radicalmente cambiata in seguito alla pandemia. Le corti di merito, infatti, hanno cominciato a prendere in considerazione le difficoltà contingenti nelle quali si sono venuti a trovare i contraenti a causa dei provvedimenti normativi in materia di contenimento dell'epidemia30 e, come la decisione in commento dimostra, sono giunte persino ad ammettere la rinegoziazione. L'orientamento del Tribunale di Roma non è isolato: anche il Tribunale di Venezia, infatti, si è recentemente pronunciato in senso favorevole alla rinegoziazione di un contratto il cui contenuto è risultato squilibrato a causa dell'emergenza sanitaria31.
L'orientamento giurisprudenziale appena descritto trova un'importante conferma in una relazione dell'Ufficio del Massimario dalla Corte Suprema dedicata alla pandemia32, nella quale si precisa che la buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto ex art. 1375 c.c. è destinata ad assumere un'assoluta centralità, "postulando la rinegoziazione come cammino necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute"33. La relazione evidenzia come la correttezza e la buona fede siano destinate a salvaguardare il rapporto economico sottostante al contratto e a garantire il "rispetto della pianificazione convenzionale delle obbligazioni che vi sono annesse"34.
Particolarmente significativo appare il passaggio in cui la relazione sottolinea che "la risposta all'esigenza manutentiva del contratto e di rinegoziazione necessaria del suo contenuto va ritrovata nell'attuale diritto dei contratti riletto al lume del principio di solidarietà e rivitalizzato in un'ottica costituzionalmente orientata attraverso la clausola di buona fede, che di quel principio è il portato codicistico"35. La clausola generale di buona fede diviene, quindi, in questa prospettiva, la garanzia di un comportamento corretto nell'esecuzione delle previsioni contrattuali. L'adeguamento del contenuto del contratto, connesso all'obbligo di rinegoziare, "non contraddice l'autonomia privata, in quanto adempie alla funzione di portare a compimento il risultato negoziale prefigurato ab initio dalle parti, allineando il regolamento pattizio a circostanze che sono mutate"36.
La relazione della Cassazione appare una vera e propria apertura alla rinegoziazione, sdoganando definitivamente il rimedio e autorizzando i giudici a farne uso per eliminare le iniquità conseguenti alla pandemia. La decisione in commento appare particolarmente significativa perché rappresenta una delle prime conferme della disponibilità, anche da parte dei giudici di merito, a seguire tali indicazioni.
Conclusioni
La pronuncia del Tribunale di Roma è stata definita una decisione illuminata, "che ha saputo fare tesoro dell'insegnamento della dottrina e che si spera possa sdoganare definitivamente la revisione del contratto anche in Italia"37. In effetti essa è stata seguita anche da altri provvedimenti analoghi quali, ad esempio, l'ordinanza del Tribunale di Venezia del 30.09.2020 depositata il 02.10.2020, che non ha convalidato uno sfratto per morosità, ritenendo che, a causa delle restrizioni imposte dalla normativa sanitaria in materia di COVID-19, il conduttore non avesse potuto utilizzare pienamente i locali oggetto di locazione, attesa la loro destinazione turistico-ricettiva. La pronuncia ha riconosciuto il diritto del conduttore a richiedere, ai sensi dell'art. 1464 c.c., la riduzione della propria prestazione relativamente al periodo del lockdown e a quello di "acqua alta" che aveva colpito la Laguna in precedenza. Particolarmente significativa la puntualizzazione del giudice veneziano, il quale, stigmatizzando il comportamento del locatore, ha osservato che la notifica di un atto di intimazione di sfratto "in piena emergenza covro" non sia rispettosa del canone solidaristico imposto dall'art. 2 Cost., che è stato indicato, da parte della dottrina, come una delle norme che giustifica la rinegoziazione dei contratti il cui contenuto sia venuto a squilibrarsi durante la pandemia.
Oltre alle sentenze dei tribunali di Roma e di Venezia un'autorevole legittimazione della rinegoziazione proviene dalla già citata relazione dell'Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte Suprema di Cassazione dell'8 luglio 2020, n. 56, laddove si precisa che "il dovere di correttezza viene considerato alla stregua di limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva (attiva o passiva) contrattualmente attribuita, concorrendo alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l'ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà" costituzionalizzato nell'art. 2 Cost., che integra il contenuto e gli effetti (art. 1374 c.c.) del negozio e ne orienta sia l'interpretazione (art. 1366 c.c.) che l'esecuzione (art. 1375), nel rispetto del principio per cui "ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l'interesse dell'altro", se ciò non comporta un apprezzabile sacrificio dell'interesse proprio.
La portata sistematica della buona fede oggettiva nella fase di adempimento del contratto, ex art. 1375 c.c., assume, quindi, assoluta centralità, "postulando la rinegoziazione come cammino necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute. La correttezza è suscettibile di assolvere, nel contesto dilaniato dalla pandemia, la funzione di salvaguardare il rapporto economico sottostante al contratto nel rispetto della pianificazione convenzionale".
In questa sede pare doveroso sottolineare come la giurisprudenza, pur in assenza di un'espressa previsione normativa che introduca la rinegoziazione nel nostro ordinamento, abbia saputo far buon uso dei principi generali dell'ordinamento, supplendo alle mancanze del legislatore, e individuando correttamente nella rinegoziazione il vaccino per curare tutti quei contratti il cui equilibrio originariamente pattuito dalle parti sia stato sovvertito, in corso di esecuzione, dal covro.
Affinché la rinegoziazione possa rappresentare un vaccino efficiente occorre, però, che le parti e il giudice ne sappiano fare buon uso e, in particolare, che siano consapevoli del fatto che il rapporto dovrà e potrà essere rinegoziato più volte, almeno sino a quando la situazione economica non sarà ritornata alla normalità: all'aumentare delle restrizioni per il conduttore, è ragionevole che i canoni si riducano, ma al diminuire di esse è auspicabile che questi si riavvicinino a quelli originariamente concordati, onde evitare che la buona fede e la solidarietà sostituiscano ciò che le parti, nella loro autonomia, avevano inizialmente previsto.